Lo so, i miei tempi di aggiornamento fanno schifo. XD In ogni caso, eccovi il 4.
Spero che leggiate.
L’imprecisa perfezione.L’indomani mattina Rye uscì dal suo appartamento e si recò verso l’Hotel in disuso, ora sede dell’organizzazione. Non entrò dal portone di ingresso, bensì dalle cucine, sul retro.
Il Capo aveva personalmente spiegato le regole per “convivere bene” in quella nuova sede, non si poteva entrare dalla porta principale, si poteva rimanere a dormire nelle camere dell’Hotel, per gli incontri con dei superiori c’erano delle stanze apposite e tante altre chiacchiere che Rye aveva fatto in modo di dimenticare. Era un tipo ribelle, sapeva stare alle regole degli altri solo se c’era di mezzo qualcosa di molto grosso.
Si addentrò per le cucine delle quali rimanevano solo i piani d’acciaio, uscì quindi in quella che doveva essere la sala, in cui un tempo i ricchi signori cenavano con deliziosi pasti preparati dai migliori cuochi di tutta l’isola di Honshu. Colui che lo aspettava sedeva in uno dei tavoli rotondi pieno di buchi lasciati dalle pistole, che avevano fatto strage in quel posto anni prima; nessuno si era mai preoccupato di restaurare o quanto meno demolire quel posto: i proprietari si erano trasferiti in Europa e avevano ceduto la struttura, a loro malgrado, all’organizzazione.
Rye non poté far a meno di studiare lo sguardo penetrante del ragazzo. Era giovane, più giovane di lui, i capelli biondi, la carnagione leggermente scura e indubbiamente molto bello, indossava dei pantaloni neri e una giacca di pelle nera. Si alzò in piedi e guardò colui che gli si presentava.
“Salve.” disse il biondo.
“Ciao.” rispose Rye scocciato.
Ci fu un attimo di silenzio, poi Rye , infilandosi l’ennesima sigaretta in bocca, riprese: “Bene, allora vogliamo andare?”
“Si, ma chi sei?” Chiese anche un po’sfacciato il ragazzo.
“Mi chiamo Rye, o almeno così mi chiamano.”
“Bhè, a me devono ancora darne uno. Puoi chiamarmi Ataki.”
“Ataki?”
“Sì, non chiedermi il perché, di certo non posso svelarti il mio vero nome.”
“Okay, andiamo.”
I due si avviarono verso l’uscita e nessuno dei due aveva intenzione di iniziare una conversazione. Si diressero ad Haido, e poi nel parco.
Il sig. Comer era lì aspettando una qualche visita che di certo non credeva fatale.
“Parli inglese?” fece Rye a Ataki.
“No.”
“Bene, io lo distraggo, tu, procedi.”
“Si.”
Rye uscì dal suo nascondiglio, il parco alla mattina presto era deserto, niente testimoni, l’ideale per un omicidio.
Passò davanti alla panchina del signor Comer e si sedette.
“Excuse me, do you speak Japanese?”
“Yes, ehm, si.”
“Bene, lei è il signor Chris Comer?”
“Si, desidera?”
“Sono Tomoki Urara, imprenditore Giapponese.”
“Ah, è lei di cui mi parlava la sua segretaria ieri al telefono?”
“Si, sono io, ero qui per proporle un affare.”
Rye si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno; fece in modo di non toccare nulla per non lasciare prove e poi diede l’OK ad Ataki.
“Si si. Prego mi dica.”
Ataki inserì il silenziatore alla pistola. Mirò e sparò con un’estrema precisione che faceva invidia ai più precisi cecchini.
Rye si alzò dalla panchina, Comer, ormai morto, sanguinava dalla testa.
Si stava avviando, accendendosi una sigaretta, da Ataki, quando si vide davanti una donna. Era a sei o sette metri da lui e lo fissava.
“Chi sei?” Fece Rye.
“Nessuno che ti importi.”
Rye non riusciva a distinguere i tratti della figura che aveva davanti.
“Piuttosto tu” continuò la donna “che ci fai qui, Shuichi Akai?”