| FILE XXVII UN VECCHIO AMICO Il campo, suddiviso in due enormi e separati distretti, a loro volta scissi in sezioni dai ruoli differenti, posti dalla polizia e dai militari rispettivamente all’interno del parco Shinjuku Gyoen e del Yoyogi Park, era colmo di profughi della città di Nikko, la cui popolazione era stata ridotta alla sua nona parte. Medici e infermieri, trascinati da differenti cause all’ultima cena della ragione, percorrevano le raffazzonate strade del violento e rivelato inferno terrestre. Il sangue sghignazzava nelle flebo, deridendo la vulnerabilità dei corpi che lo contenevano in un’oscena parodia della vita. Ran, ferocemente disgustata dall’aura di morte che opprimeva il moribondo recinto umano, orrido esempio del destino della specie, si affrettò dietro alla barella del padre, tentando di distogliere lo sguardo dai mutilati che si contorcevano in preda al dolore, attorniati da infermieri disperati. Alla televisione, i telegiornali facevano del loro meglio per esorcizzare le paure e i timori della popolazione che non aveva subito direttamente l’attacco terroristico, disperdendo ipocrite parole di commozione e di sostegno e fingendo di provare interesse. «Le Nazioni Unite si raccolgono attorno al dolore dei giapponesi per le persone coinvolte…» Il mondo rispondeva al terrore con il sostegno, meditando segretamente sulla fortuna di essere rimasto incolume dal proiettile che aveva colpito altri. «Non è cambiato nulla… tutto rimane sempre uguale.» Ran si voltò verso l’uomo che aveva parlato, la cui voce risultava stranamente familiare. «L’essere umano sfrutta il dono della parola per seminare bocconi avvelenati mentre cosparge di fiori il proprio volto… se tale avvenimento non fosse aberrante, potrebbe apparire persino divertente!» La giovane, rimasta spiazzata per un momento, ignorò il folle incappucciato e proseguì per la sua strada; non aveva tempo per discutere con i pazzi. Mentre la barella si allontanava, Morte Rossa guardò con sconforto e rimpianto la giovane e meravigliosa falena che si allontanava, tuttora ignara della sorte che l’attendeva.
«Dottor Araide? Cosa ci fa qui?» L’uomo, che stava tentando di fermare un’emorragia insieme con un infermiere, si girò verso la liceale, mirandola con preoccupazione, ma senza smettere il proprio lavoro. «Ran? Tu perché sei in questo campo? Non mi dire che ti trovavi là!» Quando la giovane assentì mestamente, il povero volontario, la cui mente era già stata tormentata dalle numerose sequenze di orrore, si accasciò quasi per terra. «Con chi eri? Hai qualche ferito da curare?» La voce strozzata di Araide rivelò la frustrazione del medico sconfitto dalla falce della morte. «Mio padre… La prego, so che ci sono anche altri e che tutti i dottori sono occupati. Tuttavia, La prego: lo aiuti; ha un proiettile nella gamba.» Gli occhiali del dottore furono scossi da un forte fremito. «Lo aiuterò subito. Con quest’uomo continua tu, Hayao…» L’infermiere accettò e si apprestò a proseguire la cura del precedente paziente.
Haibara, che era stata posta in una sezione differente del campo d’accoglienza insieme al dottore, a Sonoko, a Werther e ai DB, giacché non necessitavano immediatamente di supporto medico, s’infilò rapidamente tra le colonne di tende di tessuto bianco, svelando il patetico tentativo di quietare gli animi dei sopravvissuti con l’uso di un colore rassicurante. «Agasa, quella è la nostra.» Il professore, che trasportava i bambini con l’aiuto di Werther, il cui cinico senso dell’umorismo aveva cessato di mostrarsi, si addentrò nella folla, futilmente accalcata per cercare di ottenere informazioni sui propri cari da ulteriori disgraziati. La scienziata, pressata dalla massa, poté soltanto scorgere una figura, altrimenti inconfondibile, sommersa dal caos incontrollabile. Akira la stava guardando.
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