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Alex Fedele - Detective Story, I file di Alex Fedele. Tuffatevi nell'avventura!

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view post Posted on 31/10/2012, 18:54     +1   -1
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Juventus=Alessandro Del Piero 10. 32 Scudetti vinti sul campo.

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Buon Halloween al DCF! Proseguiamo col FILE 16, chi è il misterioso sconosciuto che ha aggredito Alex?

FILE 16. Sergio



«Sergio?!» disse Bianca chinandosi su di lui. Erano passati circa cinque minuti e quel tizio cominciava a riprendere conoscenza.

Sollevammo di peso l’allievo di Chuck Norris, o meglio, Sergio, e lo portammo in cucina adagiandolo sulla poltroncina accanto alla tv. Era stordito e ci guardava tutti come se fossimo perfetti sconosciuti. Bevve un bicchiere d’acqua e capì tutto, rizzandosi in piedi e cominciando sbattere vorticosamente le palpebre.
Mi venne incontro ancora una volta, tastandosi le tasche, probabilmente nel tentativo di trovare il coltello che gli avevo fatto cadere in salone, poi mi afferrò per il colletto della polo e mi trascinò per qualche centimetro. La mia espressione doveva essere poco incline alla gentilezza, perché le parole di Bianca furono: «Capirà. Non ti arrabbiare, eh?».
«Sergio …» tentò di iniziare Flavio.
«Lei è vivo, detective, ma ora bisogna arrestare questo folle».
Senti chi parla.
«Sergio, è innocuo» gli fece notare Bianca.
«Lascia stare il mio fratellone!» gli urlò Andrea appendendosi al suo pantalone.
Guardò Bianca e poi il bambino, poi ancora Bianca e poi Flavio. Infine rivolse le sue attenzioni a me.
«Ma allora chi sei?».
«So chi sei tu. Il mio peggior incubo» gli dissi ancora sconcertato.
«Lui è Alex,» intervenne Flavio «il ragazzo mandato dal ministero. Te ne ho parlato la settimana scorsa via mail. Non ti ricordi?».
Mi guardò ancora fisso, con l’aria disorientata.
«Quindi tu …».
«Proprio io» annuì accennando un sorriso.
Mi lasciò il colletto della polo, passò le sue mani sul mio torace e mi diede qualche colpetto di simpatia. Poi mise la schiena dritta e si presentò.
«Sergio Di Verna, assistente del detective Moggelli»
«Avrei scommesso che fossi un sicario».
Esplose in una risata che mi parve esagerata.
«Quindi tu sei Alex …».
«Mi chiamano così, sì».
«Tu? Proprio tu?».
«Ho detto di sì, dannazione». Poi mi rivolsi a Bianca: «Forse è meglio farlo dormire. Mi sembra ancora stordito».
«Ma cosa dici! Guarda com’è pimpante!» esclamò Flavio dandogli una violenta pacca sulla spalla.
Il resto fu una serie di scuse incatenate l’una con l’altra. Rientrato Fabio ed effettuati i saluti di rito nei confronti di Sergio, si diede inizio alla cena, nella quale venni a conoscenza di una particolare caratteristica della personalità dell’assistente d’ufficio.
«Eh sì. Sempre uguale il detective! Proprio un eroe!» esclamò entusiasticamente.
Lo guardai e mi scoccò un enorme sorriso, identico a quello di un bambino.
Guardai allora Bianca e lei mi fece spallucce. Poi si avvicinò e mi sussurrò: «Impara questo. Sergio è il fan numero uno di mio padre. È il suo eroe».
Cominciai a ridere senza motivo, ma mi torturò l’indice della mano senza motivo, facendomi cenno di smettere.
«La vuoi piantare? È molto sensibile».
«Ne ho avuta prova in salotto».
Un altro colpo, stavolta al polpaccio.
«Ora capisco perché sragiona. Ha dei gusti davvero pessimi».
Mi guardò fisso. «Non ti picchio selvaggiamente solo perché ci sono dei testimoni».
«Immagino».
Squillò il telefono e Flavio dovette allontanarsi. Lo sentimmo farfugliare qualcosa di poco sensato come: «Ha sbagliato numero, però. Questo è quello di casa. L’ufficio chiude alle diciannove e trenta».
Non so cosa gli dicesse il suo misterioso interlocutore, ma mi parve che insistesse. E anche parecchio. «Non posso … insomma, lei è fuori orario, signore!».
Ancora una pausa.
«Se è così saremo subito da lei».
Ritornò a tavola e ingollò l’ultimo bicchiere di birra.
«Muoviti, usciamo» mi disse.
«Un caso?».
«Ovvio. Non ti porto mica a fare un giro».
«Non sei nemmeno il mio tipo …».
Sergio esplose in un’altra risata e mi ricordai che forse la carriera più adatta a me fosse quella del cabarettista e non del detective.
«Omicidio?»ipotizzai.
«Sorveglianza speciale».
«Roba noiosa, insomma».
«Muoviti».

Entrai nella Croma. Flavio aveva messo su i Deep Purple, ma io non li ho mai amati particolarmente, dunque cercai di ignorare le loro melodie.
«Sorveglianza speciale?» chiesi.
«Te l’ho detto» mi rispose. «Si tratta di un’opera d’arte o qualcosa del genere. Non ho ben capito, al telefono».
«E se fosse solo una copertura? Se fosse una trappola? Detective, non sono proprio tranquillo, lo sa?». Dimenticavo. Con noi c’era Sergio.
Guardai stranito Flavio.
«Cosa diamine ci fa qui?».
Sergio parve rabbuiarsi in volto. Mi ricordai le parole di Bianca sulla sensibilità e avanzai: «Ci sarai di sicuro molto utile. In fondo conosci il detective molto meglio di me, no? Eh eh …».
Rivolsi uno sguardo stranito a Flavio, che se la stava godendo un mondo.
«Era proprio necessario portarselo dietro?» sussurrai.
Rispose a denti stretti. «Dovevo farlo. Ha sempre voluto …».
«Rompere le balle?».
«No, partecipare ai casi che risolvo».
«Ma ha la discrezione di Taz, dei Looney Tunes!» tentai di protestare.
«E tu le battute di un comico fallito, ma non per questo non ti faccio partecipare ai casi».
Dannazione, mi aveva fregato.

NEXT FILE: Un nuovo caso per Alex e Flavio!

Edited by Matteo Del Piero - 28/7/2013, 17:41
 
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Kiyomi chan
view post Posted on 17/11/2012, 13:35     +1   +1   -1




Ehi , ti ricordi di me ?? xD
Volevo prima di tutto segnalarti il mio cambio di nick , da silver a Kiyomi chan , così per farti capire chi sono :asd:
Poi ... i file *______* Che dire in merito ?
Tremendamente meravigliosi , l'ultimo che hai postato mi piace davvero moltissimo :D Uno meglio dell'altro :Q________
Aspetto il prossimo file , non posso fare altro di dirti di continuare così ! :D
 
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view post Posted on 19/11/2012, 19:17     +1   -1
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CITAZIONE (Kiyomi chan @ 17/11/2012, 13:35) 
Ehi , ti ricordi di me ?? xD
Volevo prima di tutto segnalarti il mio cambio di nick , da silver a Kiyomi chan , così per farti capire chi sono :asd:
Poi ... i file *______* Che dire in merito ?
Tremendamente meravigliosi , l'ultimo che hai postato mi piace davvero moltissimo :D Uno meglio dell'altro :Q________
Aspetto il prossimo file , non posso fare altro di dirti di continuare così ! :D

Ciao Silver ... no, Kiyomi Chan :) son contento che tu abbia ripreso a commentare. Sei molto gentile, grazie per i complimenti. Scusa per il ritardo, qui trovi il nuovo file :)
 
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view post Posted on 19/11/2012, 19:43     +1   -1
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FILE 17. Parlare francese



In poco tempo arrivammo davanti ad una residenza abbastanza umile, ma dignitosa. L’aria fresca e salutare tipica delle località campane cominciava a farsi sentire, tanto che dovetti alzarmi il bavero della giacca, apparendo così come una brutta copia di Corto Maltese.
«Chi è il cliente?» domandai mentre aspettavamo sulla soglia di un vecchio cancello arrugginito.
«Un pittore famoso solo a livello locale. Ha dipinto un quadro che esporrà nella mostra che si terrà domattina in città. Siccome pare che abbia ricevuto delle minacce telefoniche riguardanti la sua opera, vuole che me ne occupi fino a domattina».
Finalmente, dopo qualche minuto di attesa, qualcuno si degnò di rispondere al citofono. Il freddo aveva già fatto a pugni col mio naso, rendendolo rosso come un peperone e gelato come una granita.
«Desiderate?» chiese una voce femminile.
«Sono il detective Flavio Moggelli. Ho ricevuto una chiamata poco fa e …».
«Oh certo, prego, entri pure».
Il cancello emise un suono a scatto e noi scivolammo rapidamente all’interno di un giardino molto poco curato, contraddistinto da buche enormi e dal suolo fangoso a causa della pioggia battente che aveva cominciato a rendere le cose più spiacevoli da qualche minuto a quella parte.
Sulla soglia della porta d’entrata, una donna sulla quarantina, probabilmente la stessa che ci aveva aperto, ci attendeva impaziente. Aveva i capelli rossicci e lo sguardo vivo di una quindicenne.
Flavio le sorrise a distanza, facendo apprezzamenti su quanto fosse affascinante.
«Accomodatevi» ci disse. «Mi chiamo Penelope ed è mio marito che vi ha chiamato».
«Suo marito è …?» chiesi.
«Si chiama Gianluigi Gherardi, lo conoscete?».
«Veramente …» provai a dire, ma Flavio mi pestò un piede.
«Ovviamente. Chi non lo conosce?».
Trattenni le lacrime a fatica e sussurrai. «Per esempio … io?».
«Non voglio farvi perdere tempo, vi porto subito nello studio di mio marito».
Per arrivare allo studio di Gherardi camminammo lungo un vasto corridoio dipinto di scarlatto che pareva non finire mai. Penelope si fermò davanti ad una porta bianca dotata di uno strano spioncino. Tentennò un momento e poi bussò.
«Entrate pure» disse una voce roca.
«A cosa serve quello spioncino?» chiese Sergio.
«A niente. Il fatto è che mio marito è un vecchio fissato» giustificò la donna con un sorriso. «Pensate che» disse indicando una porticina talmente bassa da poter essere giusta solo per un folletto «colleziona preziosi fazzoletti di stoffa. Ne ha di ogni tipo, soprattutto con decorazioni risalenti al XVI secolo».
«Guarda che ti ho sentito» ammonì un uomo sulla sessantina. Poi proseguii: «Ma non mi offendo. L’eccentricità fa parte dell’arte, giusto detective?» chiese con un sorriso. Richiuse la porta alle nostre spalle e avanzò con movimenti inusuali.
«Senza alcun dubbio» rispose Flavio lanciandomi uno sguardo perplesso.
«Gianluigi Gherardi» disse l’uomo irrigidendosi e porgendoci la mano
«Detective Moggelli. Onorato».
«Oh …qui sont ces deux gars qui sont sur le côté? Peut-être ses enfants?».
«Prego?».
Penelope scoppiò in una fragorosa risata e pareva divertirsi molto.
«Oh, dovete scusarlo! Mio marito è molto legato alle sue origini marsigliesi e lo dimostra inserendo frasi in francese nei suoi discorsi».
Che burlone. A momenti morivo dal ridere.
«Le ha chiesto chi sono questi due ragazzi» e ci indicò «e se sono suoi figli».
«Ah, ora è tutto chiaro. No, sono due miei … collaboratori, diciamo così».
Sergio mi diede di gomito. «Siamo suoi collaboratori! Non è emozionante, eh Alex?».
Avrei voluto stenderlo.
«Come no, da brividi …».

«L’ho convocata, detective Moggelli, perché come le ho spiegato al telefono, devo assolutamente proteggere il mio ultimo capolavoro».
«Di cosa si tratta?» chiese Flavio incrociando le gambe su uno sgabello in metallo.
Gherardi chiamò a sé un ragazzo sui vent’anni. Gli bastò un cenno snob fatto con l’indice e quel ragazzino del quale fino ad allora avevamo ignorato la presenza si catapultò all’istante.
«Manuel, va a prendere la tela per favore. Mostriamola ai signori».
Gherardi si stiracchiò sulla sua sedia da lavoro e ci guardò.
«Ho anch’ io i miei collaboratori, cosa crede?» e si rivolse a Flavio.

Dopo circa cinque minuti il ragazzo ritornò nella stanza. Il suo fisico prestante portava in mano una tela coperta da un lenzuolo opaco. Le mani possenti stringevano la tela come se fosse il tesoro di El Dorado, ma contemporaneamente la maneggiavano come se fosse il Sacro Graal. La dispose, dunque, su di un cavalletto in finissimo legno pregiato. Osservai Manuel e lo vidi composto, solerte, quasi meccanico nei movimenti. Aveva dei capelli castani completamente spettinati e gli occhi erano stanchi e vitrei.
«Scopri pure, Manuel» affermò con fierezza Gherardi.
Il quadro raffigurava uno stupendo paesaggio marino al tramonto. Ma il pittore aveva cercato di non cadere nella banalità, usando colori forti, accesi. Tonalità prepotenti come il fucsia e l’arancione si mescolavano ad alcune ben più delicate, come l’avorio e il celeste, creando un’imperdibile sensazione di pace e quiete e dando vita ad un piccolo capolavoro di arte locale. Nelle pennellate decise, ma delicate vi era l’essenza del ritratto, un vero e proprio urlo per ottenere tranquillità, un atto di prepotenza per la pace. Questo almeno secondo la mia interpretazione.
«Vi piace?» chiese sorridendo.
«Altroché! E’ magnifico!» disse Sergio con la consueta espansività.
«Notevole. Davvero notevole …» osservò Flavio.
«Ha un nome?» chiesi.
«Specchio dell’anima».
Flavio ruppe l’incantesimo. «Veniamo a noi. Il nostro compito sarebbe …».
«Proteggerlo a costo della vita. Ci sono numerosi ladri che potrebbero rubarlo e inoltre, se proprio vuole saperlo, come le ho accennato a telefono, ho ricevuto minacce di rapimento e cose del genere».
«Perché non si è rivolto alla polizia, allora?».
«Ragazzo,» e Gherardi si rivolse a Sergio. «L’attenzione dei media sarebbe stata troppa, non credi?».
«A pensarci bene …».
«Solo questo?» domandò Flavio.
«Solo questo. E non ho problemi economici. Difenderete la mia arte per … diciamo un assegno da diecimila, le va?».
Il mio amico strabuzzò gli occhi e stessa cosa fece Sergio, guardandomi perplesso.
«Perché lo fa?» chiesi curioso.
«Eh?».
«Ci dà una montagna di soldi solo per dormire una notte qui e sorvegliare il suo piccolo capolavoro. C’è altro che dovremmo sapere?».
«Chiudi la bocca» sussurrò Flavio a denti stretti. «Ha diecimila figlioli, nelle mani» aggiunse.
«Vedi ragazzo,» e l’artista si sfregò le mani «l’arte è come un figlio . Devi curarla, mantenerla viva ogni giorno della tua vita. Devi essere il suo punto di riferimento, perché nasce e cresce grazie a te. Non posso correre il rischio che mio figlio venga rapito, mi capisci, non è vero?».
«Ma certo … » risposi dopo qualche secondo di esitazione.
«Allora siamo d’accordo mes enquêteurs?»
«Ehm … Oui» abbozzò Flavio.
«Vi aspetto al piano di sotto per un caffè» disse Gherardi lasciando lo studio.
Nel frattempo, notai che Manuel, l’assistente dell’artista, aveva cominciato a riordinare i colori, a coprire le tele e a fare tutti quei lavori “sporchi” che toccano ad un buon garzone.

Manuel ci seguì e invece di un caffè preferì un tè caldo. «Veramente magnifico. Ancora complimenti» Sergio tentò di legare con lui, ma non ebbe risposta.
«Assomiglia a quel quadro,» continuò mentre Flavio e Gherardi parlavano animatamente di politica e di tutte quelle sciocchezze di cui si parla solo per convenienza «quello famoso … come si chiama? Ah si, Terrazza del caffè la sera ad Ariès. Mi pare fosse di …»
«Monèt» rispose lapidario. Almeno sapevamo che non era muto.
«Oh … pensavo fosse di …»
«Monèt!» ribadì quasi indignato «Ne sono assolutamente sicuro».
Sergio mi guardò con timore. «Va bene, e Monèt sia, allora!».
Guardai Manuel con perplessità, studiandolo accuratamente, ma scacciai i soliti sospetti dalla mia testa e ripresi a visitare la casa, perdendomi nei colori accesi dei quadri di Gherardi.
Verso le undici l’artista e sua moglie decisero di coricarsi. Quest’ultima ci portò di sopra a visitare le nostre stanze e notai quanto fossero squallide e mal tenute. Sarà stato anche un artista, ma di certo non era ospitale e avrei preferito dormire ad Alcatraz, piuttosto che appoggiarmi su quei letti fatiscenti. Chissà se Gherardi avrebbe avuto il coraggio di definire arte anche quella roba. L’avrebbe spacciata per rustica, magari.

Ma dovetti accontentarmi e dunque mi sdraiai. La cosa negativa della notte è che è troppo lunga e quindi ti costringe a pensare. La rivelazione che la signora Moggelli fosse morta mi aveva sconvolto e non dormivo da giorni. Pensavo al dolore di Bianca, di Fabio e anche a quello di Flavio che, anche se ben nascosto, non era sicuramente minore. Avrei voluto scoprire la verità, ma soprattutto rifiutavo l’idea di rivedere ancora lo sguardo triste e malinconico di Bianca ogni qualvolta che tentavo di approcciare l’argomento. Lei amava suo padre. Punto e basta. Incondizionatamente, come farebbe qualsiasi altra figlia cresciuta al suo stesso modo. Ma consideravo un’ingiustizia che non sapesse delle cause reali della morte della sua stessa madre. Un’ingiustizia.

Un rumore.
Aprii gli occhi e vidi solo buio. Provai ad indirizzare la mia mano sull’interruttore della luce, ma questi si ribellava.
Blackout.
Poi un urlo, due, tre, quattro, infine il tonfo di una persona che si piega al crudele destino. Io e Flavio uscimmo in corridoio a dare un’occhiata, ma c’era buio pesto e neanche un gatto sarebbe riuscito a vedere qualcosa. Per mia fortuna andai a sbattere contro Sergio, che come al solito diede fuori di testa troppo prematuramente.
«Il ladro! Il ladro!» cominciò ad urlare Sergio.
Sbattei contro qualcuno, ma fortunatamente poco dopo ritornò la luce e ritrovai Sergio chinato, con la mano sinistra che gli copriva un occhio.
«Che hai fatto all’occhio?» gli chiesi.
«Me l’hai colpito tu, spero inavvertitamente».
«Ma è ovvio. Scusami».
Sì, godevo come un matto. Uno ad uno. Palla al centro. Un occhio nero era il minimo, dopo lo spavento che mi aveva provocato qualche ora prima.
Flavio impugnava la sua pistola, una Glock 21, vecchio stile, ma sempre efficace. Scivolammo nei corridoi e arrivammo al piano di sotto.
«Signora! Signora, mi sente? Signora Penelope!» chiamava Flavio, ma non otteneva ancora risposta.
Percorremmo un ulteriore corridoio, quello che portava all’ufficio dell’artista, ma trovammo la donna con la testa tra le mani. Piangeva come un’ossessa ed alla mia richiesta di spiegarmi cosa fosse successo si limitò a puntare un dito contro lo spioncino. Manuel mi guardò depresso. Guardai prima io, poi Flavio mi spintonò e volle guardare a tutti i costi.
Lo studio del signor Gherardi era ormai diventato il triste e macabro scenario di un delitto efferato e il corpo del pittore era steso proprio lì, al centro dello studio, con la testa mozzata e un lago di sangue che gli sgorgava ovunque.
«La porta è chiusa a chiave!» esclamai.
«Merda,» fece Flavio «dobbiamo entrare, potrebbero esserci delle prove importanti. Signora, ha un duplicato di questa chiave?» urlò contro la donna nel tentativo di spronarla.
Non rispose. Riformulammo la domanda. Non rispose ancora.
«Ormai è morto. Ha la testa mozzata e non possiamo fare nulla per salvarlo. Aspettiamo la polizia» gli dissi. «La apriranno loro».

Nemmeno a dirlo arrivò Ducato con la sua squadra, ma dall’aspetto capii che forse era il suo giorno libero. I capelli erano mal pettinati, la giacca stropicciata, la camicia sbottonata, segno che forse era stato chiamato in sostituzione del suo vice.
Esordì con un saluto composto. «Non ho neanche un attimo di pace …» sussurrò fra sé. «Insomma, che succede qui?».
«Ispettore Ducato,» gli andò incontrò Flavio «le spiego tutto. Alex, dà un’occhiata in giro. Sergio, assisti Penelope».

Apparentemente la scena del crimine non presentava nessuna anomalia. Il corpo, tranciato dalla carotide in su, non presentava nessun segno di colluttazione. I polsi erano lisci, senza alcun segno e stessa cosa dicasi per le mani. La vittima era stata colta di sorpresa.
La porta era chiusa dall’interno e a meno che l’omicida non fosse un fantasma, o uno spirito maligno privo di consistenza fisica, non c’erano spiegazioni su come un essere umano avesse potuto scardinare la resistenza della serratura, entrare e compiere quel gesto atroce. Ma soprattutto rimaneva un altro mistero. Come diamine aveva fatto l’assassino a uscire da quella dannata stanza dopo aver commesso l’omicidio?

«Flavio!» urlò Ducato. «Ho mandato Novato a ispezionare intorno all’abitazione. Forse il signor Gherardi ha subìto un attacco esterno».
«Ottima mossa» disse il mio amico.
«Ma» interruppi «la porta può essere aperta e chiusa solo dall’interno. E poi sono stato fino a poco fa a controllare porte e finestre della casa. Nessuna di loro ha subito forzature. E infine, se fosse penetrato qualcuno di estraneo in casa, non credete che avrebbe attirato l’attenzione al piano di sopra dov’eravamo, io, Flavio e Sergio? Senza contare la signora Penelope e Manuel. No, l’avrebbero avvertito di sicuro».
«Ma la signora ha chiamato aiuto parlando di un ladro, non ricordi?» mi fece notare Flavio.
«Ti stai sbagliando. A parlare di un ladro è stato Sergio».
Flavio si voltò verso di lui.
«Da quando hai la voce da donna?».
«Mi capita, quando sono spaventato …» disse il ragazzo.
Ducato non usò mezzi termini. Si avvicinò alla donna ancora in stato di shock e disse: «Ciò significa che il signor Gherardi può essere stato ucciso solo da sua moglie» - e la donna sbiancò ulteriormente - «o da Manuel» concluse.
Iniziava il gioco. Chi sarebbe stato eliminato?

Edited by Matteo Del Piero - 30/7/2013, 16:26
 
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Kiyomi chan
view post Posted on 20/11/2012, 16:21     +1   +1   -1




Premetto che ho poco tempo per commentare il file , ma lo faccio lo stsso xD ( tra poco devo studiare scienze )

Il titolo non mi prometteva nulla di buono :asd: Non perchè non mi piaccia francese , ma perchè odio la mia prof di questa materia :asd:

Bel capitolo *^* Mi metto ad indagare anche io *^* *prende una lente di ingrandimento :devil: *
Per concludere il tutto in bellezza:
CITAZIONE
«E’ sempre così fastidioso?»

:sisi:


Non smetterò mai di farti i complimenti per la fantasia che hai *___*
Scusa se anche stavolta il commento è piuttosto breve , ma rischio di prendere un 3 se non vado a fiondarmi sui libri :asd:
A proposito , se vuoi puoi pire continuare a chiamarmi Silver ^^
A presto ! :D



 
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view post Posted on 24/11/2012, 17:06     +1   -1
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CITAZIONE (Kiyomi chan @ 20/11/2012, 16:21) 
Premetto che ho poco tempo per commentare il file , ma lo faccio lo stsso xD ( tra poco devo studiare scienze )

Il titolo non mi prometteva nulla di buono :asd: Non perchè non mi piaccia francese , ma perchè odio la mia prof di questa materia :asd:

Bel capitolo *^* Mi metto ad indagare anche io *^* *prende una lente di ingrandimento :devil: *
Per concludere il tutto in bellezza:
CITAZIONE
«E’ sempre così fastidioso?»

:sisi:


Non smetterò mai di farti i complimenti per la fantasia che hai *___*
Scusa se anche stavolta il commento è piuttosto breve , ma rischio di prendere un 3 se non vado a fiondarmi sui libri :asd:
A proposito , se vuoi puoi pire continuare a chiamarmi Silver ^^
A presto ! :D

Mi fanno piacere i commenti di chi legge, significa che questa storia vale qualcosa =)
Sto correggendo il 18esimo file e cercherò di pubblicarlo domani. Rimani sintonizzata e ... spero sia andata bene con scienze ;)
 
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view post Posted on 25/11/2012, 12:26     +1   -1
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FILE 18. Chi è l'assassino?



La donna si riprese alla velocità della luce, complice l’accusa di Ducato. Il sangue le riempì gli occhi e volse uno sguardo di disprezzo all’ispettore.
«Lei è un fottuto bastardo senza cuore».
Flavio l’avvertì. «Signora, piano con le accuse. Potrebbe essere denunciata».
«Anche lei, detective!».
«Ma non ho fatto nulla, io, signora!».
«Doveva vigilare su …».
«Io dovevo vigilare sul quadro, che infatti è intatto e al suo posto» e lo indicò con un cenno della mano. «Non potevo immaginare che uno di voi avesse aspettato me per commettere un omicidio».
«Io ho un alibi. Non posso essere sospettato» disse Manuel.
Ducato gli si avvicinò. «Sarebbe?».
«Be’, ispettore … io sono stato in camera mia e solo dopo sono sceso in cucina per bere un bicchiere d’acqua. È lì che ho macchiato il pigiama».
«Ha macchiato il pigiama?».
Annuì. «Di caffè. Inavvertitamente ho preso la brocca del caffè, anziché quella dell’acqua. Sono identiche e così mi sono sbagliato».
«Quindi …?».
«Non capisce?! La macchia è la prova che sono stato in cucina, al momento del delitto. Quando ho sentito le grida della signora sono stato il primo ad arrivare»
«Confermi, Flavio?»
«Confermo. Stava stringendo a sé la signora Penelope».
«Quando si è accorta del pericolo?» domandò Novato a Penelope. Era di ritorno dal giro di ispezione della casa ed era accaldato e madido di sudore. Come previsto non aveva trovato nulla.
«Ovviamente quando ho sentito le urla agghiaccianti di mio marito. Ero nella stanza qui a fianco» e indicò un piccolo salone dotato di ogni comfort. Avrei potuto passarci circa venticinque anni, in quel salone, e sono sicuro che non mi sarei mai annoiato. C’era un angolo bar con così tanti bicchieri di cristallo da poterli impacchettare e venderli. E avresti racimolato anche una bella fortuna.
«Un servizio da dodici» già immagino.
«Novato» iniziò l’ispettore «controlla il pigiama del ragazzo».
Manuel porse il pigiama ad un addetto della scientifica e rimase in mutande. Poi si infilò su un paio di jeans logori e sporchi di colori ad olio.


Dopo qualche minuto mi avvicinai a Giuseppe Novato e gli domandai. «Trovi qualcosa di strano?».
«Non mi pare … la macchia sembra naturale e accidentale. Comunque penso che la scientifica ne possa sapere di sicuro più di me».
«Hai notato che i peli del tessuto sono tutti orientati verso l’alto?».
«Ovviamente sono dovuti ad uno strofinamento da parte del ragazzo».
Ebbi un sussulto, una sorta di flashback e fissai un punto morto della stanza.
«Quando si è macchiato» proseguì Novato «ha tentato di ripulirsi nella maniera più veloce possibile e deve aver …».
Gli strappai il pigiama dalle mani e mi guardò come se lo avessi privato di un braccio.
Quel pigiama aveva una macchia di caffè sulla gamba sinistra. Andai in cucina, stesi il pantalone sul tavolo e lo ispezionai. Trovai quello che volevo dopo nemmeno un minuto. L’alibi crollò e sulle sue macerie costruii le mie certezze. Ricordai i dialoghi delle ore precedenti e ogni pezzo del puzzle andò al suo posto.

«Insomma, dammi il pigiama, Alex!». urlò inquietato l’agente strappandomelo dalle mani.
«Mi scusi, ma avevo avuto un’idea e …».
«Cosa fai?» mi chiese Sergio entrando in cucina. «Il detective Moggelli ti vuole parlare».
Annuii, poi guardai dritto Sergio negli occhi.
«Senti, posso chiederti un favore?»
«Dopo l’occhio nero?» e indicò la palpebra livida.
«Dopo l’aggressione di oggi?» scimmiottai.
Si arrese. «Va bene, che vuoi?».
«Allora va da Manuel e chiedigli chi ha dipinto Mary Ann. Chiaro?»
«Eh? E perché?».
«Tu fallo e basta. Dì a Flavio che arrivo in un attimo».

Uscii fuori dalla cucina e presi la signora Penelope da parte.
«Signora, da quanto tempo Manuel lavorava per suo marito?»
Parve rifletterci qualche secondo. Poi disse: «Da circa tre mesi, ma perché me lo chiedi?».
Risposi con un sorriso e andai da Flavio, intento a studiare la serratura della stanza del delitto.
Andai di nuovo nella stanza del delitto. Trovai Flavio chino ad osservare la serratura dalla quale si apriva e chiudeva la porta.
Dovette sentire l’eco dei miei passi, perché all’improvviso fece:
«Hai finito di cazzeggiare?».
«Prego?».
«Un corno. Non c’è alcun segno di forzatura sulla serratura. Questo è proprio un mistero. Inoltre la vittima aveva dotato il suo studio di quelle vecchie serrature a ferretto».
«Prima, mentre cercavamo di aprire la porta, ho notato una cosa strana nella serratura. Prova a farla scorrere».
Eseguì servendosi di un fazzoletto di stoffa e stando bene attento a non lasciare impronte.
Si voltò verso di me, già spazientito. «E allora? Che c’è di strano? A me sembra una normale serratura».
«Non vedi che tutta la serratura è coperta di ruggine, tranne la parte iniziale dedicata allo scorrimento?».
Osservò e vide che avevo ragione. «L’avranno pulita».
«Ma perché non tutta?».
Pazientò ancora prima di rispondere. «E io che diamine ne so?».
«Abbiamo a che fare con un assassino distratto»
«Tu dici?».
«Sì, sai ho una teoria»
«Le teorie servono solo in matematica».
«Quelli sono i teoremi».
«Ma perché devi sempre complicare il mio lavoro?» chiese quasi al limite della disperazione.
Inarcai un sopracciglio.
«E non fare finta di non capire».
«Non capisco sul serio, stavolta».
«Il progetto prevede che tu esamini la scena del crimine e scriva in un report le tue deduzioni. Poi dovresti sottoporle a me e il tuo compito dovrebbe finire lì, sono stato chiaro?».
«Be’ …?».
«E invece tu fai quello che diavolo ti pare!» mi urlò in faccia. «Una volta sottrai le prove, poi formuli congetture senza alcun rigore e infine metti in scena il tuo spettacolino da esibizionista! Lo vuoi capire che se per caso, anche solo per una volta, incolpi la persona sbagliata, il mio onore e quello dell’agenzia investigativa cadrà nel vuoto?».
Rimasi impassibile, mentre mi alitava in faccia.
«Rilassati …».
Si passò una mano sul viso, mentre le vene gli pulsavano sulle tempie.
«Ok, sai che ti dico? Vuoi fare il tuo show? Prego, Auguste».
«Ti riferisci a Dupin?».
«Sì, o’ grande genio».
«Divertente» riconobbi e lo lasciai lì a ricoprirmi di insulti.

Mi sedetti a terra, al centro del corridoio, e già questo mi bastò per attirare l’attenzione di tutti.
«Sei diventato cretino?» mi chiese Ducato. «Alzati immediatamente!».
«Smetta di piangere, signora Penelope. Ormai è tutto chiaro».
La donna alzò gli occhi e una soffice ciocca di capelli le cadde sul viso. Se la scostò, prima di chiedermi che intendessi dire.
«Tra poco suo marito avrà quantomeno giustizia. L’assassino verrà smascherato, vedrà».
L’ispettore si chinò e arrivò al mio livello. Mi guardò fisso negli occhi e vidi in lui la rabbia crescere lentamente. Quando aprì bocca, però, mantenne la calma. Mi sussurrò:
«Cosa dici? Non abbiamo la minima idea di chi …».
«Mi lasci fare, d’accordo? Forse ne ricaveremo qualcosa di buono, non crede?».
«Ecco, io non credo che tu sia abbastanza …».
«Sì, signora Penelope. Adesso è finalmente tutto alla luce del sole» alzai la voce in modo da interrompere il dialogo con l’ispettore ed ebbi l’impressione che da lì a poco mi avrebbe colpito così forte da indurmi al coma. La donna rimase impassibile, mentre Manuel si era accomodato su una sedia di legno prelevata dalla sala hobby dei signori Gherardi.
«Sapete, la prima cosa che balza all’occhio è che sulla scena del crimine non vi è alcuna anomalia. Insomma, voglio dire … nessuna forzatura della serratura della stanza in cui è avvenuto il delitto, entrate della casa perfettamente integre, alcun segno di colluttazione sul cadavere della vittima. Sembrava un delitto perfetto, ma l’assassino è distratto, molto distratto».
«Distratto?» chiese Sergio.
«L’assassino è entrato nello studio del signor Gherardi, perché è stata la vittima che ha richiesto la sua presenza. Ha approfittato di un momento di distrazione del signor Gherardi e gli ha mozzato la testa senza alcuna pietà».
Alla parola “mozzato” Penelope chiuse gli occhi e sul suo viso si fece più marcato il dolore.
«Manuel,» lo interpellai «spiegaci come hai fatto. Non essere timido».
Penelope lo spintonò in segno di stizza e lo guardò indignato. «Non voglio crederci» disse indignata.
Lo sguardo del ragazzo passò da piatto a feroce. Strinse i pugni e serrò la mascella come se avesse dovuto sostenere un match con Rocky Balboa.
Rimase in silenzio, lo sguardo fisso sul pavimento, il corpo privo di qualsiasi movimento naturale, i muscoli del collo in tensione.
«Vedo che preferisci che racconti io com’è andata». Mi alzai da terra e mi appoggiai spalle al muro.
«Quando sei entrato hai nascosto l’arma dietro la schiena. Dopo aver ucciso il signor Gherardi sei riuscito ad uscire dalla stanza».
«Come ha fatto?» chiese agitato Flavio. «La porta era chiusa dall’interno e non ci sono chiavi di riserva».
«Aveva ovviamente una chiave di riserva. Il signor Gherardi ha uno studio talmente ordinato e dotato di ogni comfort, che è impossibile che se ne occupi da solo. Sarebbe lecito, in fondo, dare un duplicato della chiave al proprio assistente».
«Quindi ha mentito anche quando ha dichiarato di non avere alcuna chiave di riserva».
«Frugherei nei suoi effetti personali, fossi in voi della polizia. Forse l’ha nascosta in un cassetto in camera sua, o forse ce l’ha ancora addosso, chissà …».
Finalmente Manuel reagì. «Sono solamente congetture prive di fondamento. Non hai prove della mia colpevolezza. E ti consiglio di chiudere la bocca» ora il suo tono divenne offensivo «se non vuoi essere denunciato».
Feci schioccare la lingua e sorrisi. «Hai dimenticato di lavarsi le mani, Manuel».
«Eh?».
«C’è una parte della serratura sporca. È quella che hai toccato con le mani sporche di sangue nel tentativo di non toccare il pomello e non lasciare impronte! Sfortunatamente per te …».
Flavio mi interruppe ancora. «Ma non è ruggine?!».
«Non è ruggine, bensì sangue. Le analisi della scientifica confermeranno che si tratta dello stesso sangue perso dalla vittima».
Il silenzio inghiottì le lamentele di Manuel, adesso disarmato per forza di cose.
«Parliamo della macchia, ti va?» chiesi.
Non rispose.
«Quando ho esaminato il pigiama in cucina, ho notato che la macchia era completamente asciutta. La macchia è stata fatta un sacco di tempo fa e non stasera, come sostieni tu. Inoltre, e Novato potrà confermare, quella macchia odora di detergente, segno che il colpevole ha già provato a toglierla più volte senza successo. La parte del pigiama occupata dalla macchia è ormai quasi del tutto consumata e logora, cosa che ci porta a supporre che l’indumento è stato lavato già molte volte, probabilmente a mano».
«Novato?» lo interpellò l’ispettore.
L’agente rispose con un cenno affermativo del capo. «Ora che Alex l’ha detto, ricordo anch’io di aver sentito vagamente l’aroma di detergente».
Manuel sbatté un pugno sul muro e un quadro di Gherardi cadde a terra. Segni del destino.
Mi avvicinai a lui.
«Vuoi confessare?».
«Io non avrei …» balbettò. «Non avrei mai potuto uccidere il maestro, perché io …».
«Tu, cosa?!» gli urlai a due centimetri dalla faccia.
«Io vivo per l’arte, bastardo!».
Indietreggiai e scrollai le spalle, accompagnando il tutto con un lieve sorriso.
«Dovresti vivere per la recitazione. Meriteresti un Oscar per come stai interpretando la parte dell’allievo. Puoi certamente ingannare una platea, ma non la ragione».
«Cosa vuoi dire?!» si affrettò a chiedermi Ducato.
Diedi le spalle a Manuel.
«Questo tizio non sa nulla di arte. Per lui Terrazza del caffè la sera ad Ariès è di Monèt e non di Van Gogh e» proseguii guardando Sergio «gli hai fatto quella domanda?».
Sentii il respiro affannoso del ragazzo alle mie spalle e per un attimo pensai che volesse aggredirmi. Sarebbe stata la seconda volta in poco meno di otto ore. Avrei di certo stabilito un record.
«Certo, Alex».
Flavio lo guardò incuriosito. «Che domanda?».
«Alex mi ha chiesto di domandare a Manuel chi avesse dipinto Mary Ann. Io l’ho fatto, ma lui ha risposto che non lo ricordava».
«Non lo ricordava, capite?» domandai ironicamente alzando la voce. «Un brillante studente, presumo, di arte antica e contemporanea, un amante dei ritratti e delle nature morte, un tizio che finge di venerare Gherardi, quello che dovrebbe essere il non plus ultra del … ».
«Abbiamo afferrato» interruppe Ducato.
«Mary Ann l’ha dipinto Robert Henri, un impressionista» dissi voltandomi verso Manuel.
«Non ricordo le cose che ho studiato. E allora? Questo basta per fare di me un assassino?!» chiese esasperato.
«Quindi non hai ucciso Gherardi?» domandai.
«Ti ho detto di no!».
«Ok, ti credo».
Ducato e Flavio esclamarono: «Come?!».
Poi l’ispettore guardò Flavio. «Ha incolpato un innocente per nulla?! Flavio, è una tua responsabilità, lo sai?».
Il mio amico mi guardò feroce, ma gli feci un cenno d’intesa e il suo sguardo si alleviò pian piano che i nostri sguardi rimanevano fissi l’uno in quello dell’altro.
Non parlai più, ma continuai a fissare Manuel. Chissà se il pesce avrebbe abboccato.

NEXT FILE: Che cosa ha in mente Alex? Finalmente la fine di un caso complicato!

Edited by Matteo Del Piero - 30/7/2013, 16:24
 
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FILE 19. Trionfa il bene



L’ispettore Ducato e Flavio tenevano i loro sguardi fissi su di me. E non erano affatto gentili.
La signora Penelope aveva gli occhi sgranati, a fissare un punto imprecisato del mio corpo, mentre Sergio e Novato mi osservavano increduli.
Ripresi a parlare.
«Non posso certo incolparti di qualcosa che non hai fatto Manuel, figuriamoci. Te lo chiedo per l’ultima volta. Il signor Gherardi è morto con la testa mozzata. Non sei stato tu?».
Manuel roteò gli occhi al cielo, poi sbuffò.
«Non ho ucciso il signor Gherardi. Non sono io il colpevole e non ho idea di dove l’assassino abbia preso quell’ascia!» concluse trionfalmente.
Seguì un momento di silenzio.
«Adesso sei convinto, o no?».
«Ispettore, ha sentito cosa ha detto?» chiesi a Ducato.
«Che domande … ha confermato di non aver ucciso la vittima. Lo dice da ore!».
«Da quando siamo qui» dissi camminando avanti e indietro su per il corridoio «abbiamo parlato di teste mozzate e di armi da taglio. Manuel, mi spieghi come fai a sapere che l’arma del delitto è proprio un’ascia?».
Il ragazzo sbiancò e nei suoi occhi apparve un invisibile velo di terrore.
«L’avete detto … l’avete detto voi prima» disse cercando di deglutire senza fatica.
Mi avvicinai al suo volto e scossi lentamente la testa. «Noi abbiamo parlato di arma da taglio. La parola “ascia” è menzionata solo nel rapporto stilato da Novato. Siccome il rapporto ce l’ha proprio adesso in mano l’agente, mi vuoi spiegare come fai con certezza ad affermare che la vittima è stata uccisa con un’ascia?».
Gli sguardi dei presenti si catalizzarono sul ragazzo, Ducato aveva assunto una posa offensiva ed era pronto a scattare sul sospetto, nel caso in cui quest’ultimo avesse tentato la fuga.
Ebbi l’impressione che stesse per controbattere, ma crollò sbattendo le spalle al muro e lasciandosi cadere a terra.
«Merda» sussurrò.
«Ti sei appena descritto» affermai.
Flavio mi lanciò un’occhiataccia.
«Ci vuole spiegare il suo movente?» chiese Ducato. «Lei non aveva …».
«Oh, desideravo veder morire quel cane bastardo da un sacco di tempo» rispose lapidario.
Penelope gli arrivò di fronte.
«Mio marito ti ha dato tutto. Una casa, un lavoro, ha cercato …».
«Stia zitta! Lei e suo marito siete sicuramente identici! Entrambi vivete nei sensi di colpa, ma ci sguazzate senza problemi».
«Spiegami perché!» urlò la vedova.
Manuel rimase calmo e riacquisì quello sguardo piatto che aveva avuto fin dall’inizio.
«Mi sono fatto assumere spacciandomi per un neo laureato in arte. Quel porco, circa un anno fa, ha avuto una relazione con mia sorella, ma un giorno i due litigarono e lui la picchiò selvaggiamente riducendola in fin di vita».
Rimanemmo in silenzio a contemplare quella triste scena, a riflettere sull’orrore che Manuel ci stava descrivendo e che adesso lui aveva ripetuto, seppur cambiando soggetto. Penelope ebbe un sussulto e all’idea di esser stata tradita cominciò a sussultare senza controllo. Novato provò a tranquillizzarla, ma si beccò uno spintone.
«Non meritava di stare al mondo. Non meritava di vivere. Non mi pento di ciò che ho fatto. Vorrei tornare indietro e farlo altre mille volte e poi … poi altre mille volte ancora!».
Il suo discorso terminò con una risata sadica che riempì tutta l’abitazione. Giuseppe Novato gli mise le manette e Flavio disse la sua:
«Quando si compiono scelte sbagliate alla fine ci si pente sempre, Manuel. Hai un cuore come tutti ed esso è capace di pentirsi. E ti assicuro che lo farà, anche se dovesse accadere un giorno lontano».
La vendetta era stata consumata. Un ragazzo aveva ucciso, aveva commesso il peccato più grande del mondo per vendicare sua sorella, rea solo di essersi innamorata di un animale senza scrupoli. Sono queste le situazioni in cui la moralità viene messa in dubbio e dove la vendetta è osannata dalla collettività e vista come giusta, sacrosanta. Non riuscirò mai a schierarmi, in queste situazioni. Uccidere è sbagliato, vendicarsi è sbagliato, ma a volte la giustizia non è consolatrice. Si sente l’esigenza di trasformarsi in ciò che si odia. E questo permette agli uomini di mancare di civiltà. Ammesso che ai tempi di oggi ve ne sia ancora una.

Durante il viaggio di ritorno Sergio era super eccitato. Avrei voluto strangolarlo, ma poi mi ricordai che avrei commesso anch’io un omicidio, quindi optai per le mie solite cuffiette.
«Criminali, omicidi … e poi quella ricostruzione dei fatti! Siete stati bravissimi! Che emozione! Meglio dei film polizieschi, meglio di … di …».
Continuò a blaterare per una buona mezz’ora.
«La pianterà?» domandai a Flavio.
«Probabilmente tra qualche anno».

NEXT FILE: Può un ristorante essere teatro di un reato?

Edited by Matteo Del Piero - 1/8/2013, 11:27
 
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FILE 20 – Il Supremo



Il Supremo era, seconda Bianca, «il ristorante più in voga a Torino negli ultimi tempi».
I proventi dell’agenzia si erano moltiplicati e così avevamo deciso di festeggiare il lieto evento concedendoci una serata all’insegna dei peccati di gola. Bianca aveva spinto per andare in quel ristorante, in quanto il suo attore preferito, mesi prima, ne aveva acquistato il settanta percento. Impossibile per una fan di quel gaglioffo, un tizio con i capelli biondi e un’espressione da femminuccia di cui non ricordo nemmeno il nome, non cenare almeno una volta nella vita in quel ristorante. Naturalmente, quasi fosse un dogma, all’aggettivo “di moda” corrispondeva “costoso” e “snob”. I camerieri si atteggiavano come principi e il maître doveva essere il re, o qualcosa di simile. Fortunato era stato Fabio, che era riuscito a divincolarsi senza problemi da quella serata in famiglia. Aveva da poco conosciuto una ragazza e quest’ultima, quella sera, aveva casa libera. Fabio aveva in programma di prepararle una cenetta romantica e si era fatto dare le chiavi dell’abitazione per rendere l’ambiente impeccabile. Giorni prima ce l’aveva presentata.

«Salve, sono Martina» la voce era provenuta da una ragazza dai capelli dorati e con lineamenti sofisticati. Il nasino aristocratico e un piccolo neo vicino allo zigomo destro erano il preludio di uno sguardo penetrante, ben nascosto dietro occhiali da vista all’ultima moda. Non aveva parlato molto e ci diede l’impressione di essere abbastanza timida.

«Buonasera, signori» ci accolse una donna sulla cinquantina, con dei capelli rossicci raccolti in un confusionario chignon. Era seduta dietro ad una bancone di legno smaltato che fungeva da reception. «Avete una prenotazione?» chiese.
«Il nome è Flavio Moggelli» disse quest’ultimo in aria naif.
«Mi lasci controllare» disse scorrendo una lunga lista di nomi compilata su un’agendina di pelle.
«Sì, ecco» rispose dopo qualche attimo di silenzio. «Signor Flavio Moggelli. Ore venti e trenta,» e si guardò l’orologio da polso «tavolo trentatré. Le chiamo un cameriere?».
Avrei voluto rispondere con un «No, avete self service?» ma per non rovinare l’atmosfera stetti zitto.
Un giovane alto e teso come una corda di violino si parò dinanzi a noi. Ci elargì un sorriso talmente luminoso che per un momento maledissi di non aver portato gli occhiali da sole.
«Mi chiamo Dario. E per questa sera sarò il vostro cameriere personale» lanciò un’occhiatina maliziosa a Bianca, ma io e Flavio ne lanciammo una ciascuno a lui, così, tanto per gradire.
«Che bello!» esultò Bianca. Era lo specchio dell’entusiasmo. Lo stesso non si poteva dire per Andrea, alquanto confuso dall’atmosfera eccessivamente lussuosa di quel posto.
«Bianca, scusa» disse strattonandole leggermente la minigonna. La ragazza si chinò fino ad arrivare alla sua altezza.
«Sì, piccolo?».
«Che significa quello che ha detto quel signore?» chiese con aria innocente.
«É il nostro cameriere personale. Significa che se per stasera avremo bisogno di qualcosa, ci sarà lui ad occuparsene. Hai capito adesso?» disse carezzandogli le guance.
Andrea semplicemente annuì, ma non sembrò molto convinto.
Dario ci accompagnò al tavolo. Le tovaglie color arancio acceso e i centrotavola in legno rude conferivano all’atmosfera un aspetto decisamente caldo e familiare. Tutto ciò naturalmente, non stonava con l’ambiente chic di quel posto. Proprio sopra la nostra testa c’era un lampadario di cristallo così grosso da poterlo usare come panchina per una foto ricordo di maturandi.
Consultai il menù e capii di essere in una gioielleria e non in un ristorante. Alzai gli occhi e vidi Flavio che li strabuzzava senza controllo.
Dario portò un Cabernet-Sauvignon del 2001 al tavolo e Flavio ne tastò subito il gusto. Doveva essere davvero buono, perché vidi le sue guancie che si arrossirono di colpo.
«Avete già deciso cosa ordinare, o posso darvi una mano a scegliere?»
«Be’, se lei volesse indirizzarci, non ne saremmo certamente scontenti» disse Flavio esibendo il suo miglior sorriso.
Dario estrasse un palmare e cominciò a scrivere qualcosa.
«Bene, allora facciamo così. E’ una pratica abbastanza diffusa in questo locale. Io vi porto nell’ordine i piatti più consumati dai clienti. Che ne dite?»
«Potrebbe spiegarsi meglio?» dissi in tono autorevole.
«In pratica vi verranno offerti i piatti più ordinati dai clienti. Mangerete ciò che vorrete. Il resto verrà portato indietro. Una sorta di buffet direttamente al tavolo. Ora è chiaro?».
Flavio annuì e Bianca sorrise. Il menù fu davvero ricco. Gustammo sformato di melanzane con ricotta di bufala e caciocavallo affumicato su fondente di pomodoro e pesto leggero di basilico; spaghettini alla chitarra con calamaretti, pomodorini e basilico su crema di patate; risotto alla pescatora; Filetto di spigola al cartoccio con foglie di limone; purea di patate aromatizzata e asparagi di mare e infine controfiletto di vitello alla birra artigianale caprese con "chips" di patate e cipollotto. Mancava solo il dolce, ma non credevo ce l’avrei fatta.
L’unica pecca della serata fu il tavolo situato affianco a noi. Al tavolo trentadue erano sedute quattro persone: tre uomini ed un’avvenente signorina che erano impegnati a discutere animatamente a proposito di problematiche di lavoro, del mondo in generale, politica, crisi economica. Avevano opinioni discordanti e credo le sentirono anche in Sud Africa, quella sera.
«Cosa diamine stai dicendo? Non sai che l’inflazione è provocata anche dalla scorretta forma di intervento statale in economia che c’è in Italia? Non lo sai che così si svaluta la nostra moneta?».
Un tizio calvo con una giacca nera e una camicia a quadretti viola stava degenerando, tanto che Andrea mi chiese il significato di alcune parole che non aveva mai sentito prima. Il suo atteggiamento era ai limiti della buona educazione e la cosa peggiore è che continuava ad alzare la voce, nonostante le esortazioni dei suoi compagni di tavolo ad abbassarla.
L’avvenente signorina, invece, una ragazza mora e sobria, cercava di rispondergli a tono, ma era evidente che appartenevano a due mondi diversi e che l’educazione non era proprio di casa.
Per quanto riguarda gli altri due partecipanti al dibattito, più che due amici a cena, sembravano due arbitri intenti a calmare un confronto verbale tra politici in tv.
Il primo ragazzo aveva i capelli somiglianti alla paglia e cercava di dare ragione ad entrambi, mentre l’altro, un tizio magro e scarno con occhialetti da intellettuale e una giacca color sabbia, se ne stava in disparte cercando di isolarsi da quella mandria di bufali impazzita.

Flavio era particolarmente irritato dal fatto che ogni nostro discorso venisse costantemente interrotto sul nascere dalle urla di quei tizi, quindi non ci mise troppo a reagire:
«Ehi! Non potete stare zitti?».
Il tizio calvo si alzò di scatto, dando un calcione alla sedia su cui era seduto e si diresse verso il nostro tavolo. Aveva un’espressione arrabbiata ed era raccomandabile come un tizio armato di coltello in un vicolo buio.
«Ehi, sottospecie di spilungone. Chiudi la bocca».
Flavio imitò il suo movimento e i due ben presto si ritrovarono faccia a faccia, con i clienti del ristorante paralizzati, in attesa che uno dei due sferrasse il primo colpo. Il mio amico tentò di rimanere composto.
«Forse lei ignora che siamo in un posto pubblico ed è buona educazione parlare sottovoce».
«Forse lei ignora che sono in un ristorante, non in chiesa e che lei mi sta rovinando la cena».
«Io le sto rovinando la cena? Sta sbraitando da almeno un’ora!».
«E allora? Faccio quello che voglio! Pagherò anch’io il conto, alla fine della serata».
«Vorrei vedere il contrario! Maleducato!» gridò Flavio.
«Si guardi, sembra un ridicolo straccione. Si cambi quella dozzinale giacca e chiuda la bocca, glielo ripeto».
Flavio lo fissò sconcertato, poi il tizio fece un giro su se stesso, attirando ancor di più le attenzioni sulla scena.
«Guarda la mia giacca. Persino i bottoni sono di primissima qualità».
Saranno stati anche di qualità, ma sembravano graffiati. Ma non è escluso che su di loro vi fossero incise le sue iniziali. Dicasi spocchia.
«Straccione sarà lei! Questa giacca mi è costata mezzo stipendio, ha capito maleducato?».
Il maître sedò quella che poteva diventare presto una rissa e prima che potessimo accorgercene tutti tornarono al loro posto.
«Ma tu guarda che deficiente» osservò Flavio una volta calmatosi. «Urla come un pazzo e offende anche le persone che ha attorno. Uno così lo stenderei volentieri».
Flavio Moggelli, alias Joe Frazier.
Dario ci portò il dolce.
«Questo è offerto dalla direzione del ristorante. Il signore lì al trentadue è un cliente abituale e siamo abituati alle sue …».
«Stupidaggini» lo fermò Flavio.
«Però io non lo posso dire, signore».
«Immagino».
Ci servirono parfait di mandorle con scorzette di agrumi croccanti e profumo di cannella e alcuni gelati artigianali. Mentre mangiavo considerai l’ipotesi di chiamare un carro attrezzi per sollevarmi dalla sedia.

L’atmosfera era finalmente rilassata.
«Una cena impeccabile, non è vero?» ci chiese Bianca soddisfatta.
«Altroché!» esclamò Andrea anticipandoci.
Ma fummo ancora interrotti dalle urla di quel tizio.
«E per ordinare il dolce, aspettatemi!» intimò quel cafone.
Si era alzato di nuovo per andare in bagno, incredibile. Era la quinta volta, senza esagerazione, in due ore.
La bellissima ragazza del tavolo e il tipo con gli occhialetti si allontanarono e cominciarono a camminare parlando l’uno nell’orecchio dell’altra.
Il ragazzo con i capelli di paglia sorseggiò del vino, si guardò intorno e parve rilassarsi, godendosi finalmente l’atmosfera rilassata del posto.
«Chissà il conto …» bisbigliò Flavio.
«Non sarà così terribile». Poi osservai il menù e lo guardai. «Sono un bugiardo, lo so».
«Ho già il mutuo della casa, non vorrei doverne accendere un altro».
Bianca ci guardò stupefatta.
«Mi dite come fate ad instaurare questi dialoghi. Cavoli, sono da film».
«Ci vuole talento» le rispose Flavio.
«E tu non ne hai» rafforzai.
Sbuffò e se la rise con Andrea.

Edited by Matteo Del Piero - 3/8/2013, 11:57
 
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FILE 21 - Le urla rotte dal pianto



In sala c’era un televisore da almeno quaranta pollici e su di esso scorrevano video musicali di ogni tipo risalenti agli anni ’60. Ascoltammo Under the Boardwalk dei Rolling Stones; Frank Sinatra con Strangers in the night; I Pink Floyd con The piper at the gates of dawn e Bob Dylan con Blonde On Blonde.
Proprio durante quest’ultima canzone sentimmo delle urla lancinanti provenire dai bagni.
«Federico! Federico! Rispondi, cazzo!» urlò una voce assordante dal bagno degli uomini.
Le persone nel ristorante rimasero basite, mentre io e Flavio, insieme a Dario e al maître andammo di corsa in bagno cosa fosse accaduto. I nostri passi risuonarono sull’elegante parquet.
Fu orribile ciò che dovemmo guardare. Il tizio calvo che nemmeno un’ora prima aveva avuto la discussione con Flavio era piegato in ginocchio, il colletto della camicia disordinato e la giacca macchiata di saliva, che gli sgorgava dalla bocca in quantità industriale, senza controllo. Balbettava qualcosa indicando una delle porte con all’interno i sanitari. Diedi un’occhiata seguendo la direzione che indicava il suo indice, ma mi trovai di fronte una scena ancora più macabra: il tipo con gli occhialetti che si era allontanato con l’avvenente signorina era riverso a terra. Il petto era completamente spappolato e una nuvoletta rossa di dimensioni di una palla da bowling gli si era creata appena sopra lo stomaco. Il cadavere era appoggiato con il braccio destro sul bordo del water, mentre il sinistro giaceva a terra come tutto il corpo, freddo, irrigidito dalla morte.
«Chiamate subito la polizia! C’è un uomo a terra!» urlai.
Flavio corse ad avvisare il personale del ristorante e pochi minuti dopo arrivò la squadra omicidi e dei reati vari contro la persona capitanata dall’ispettore Vincenzo Ducato, con al seguito l’agente Giuseppe Novato e un paio di funzionari della squadra scientifica.

Il primo ad esaminare il corpo fu l’ispettore. I suoi guanti bianchi perlustravano ogni singolo centimetro del corpo della vittima e lo facevano con delicatezza e maestria. Aveva un’espressione tesa e arrabbiata e per un secondo mi domandai se facesse tutto con quell’espressione, compreso andare in bagno o dormire.
Poi si rivolse verso Novato.
«Novato, servono altri due agenti. Richiedili alla centrale. La direzione ha detto che le persone nel locale sono circa trenta e nessuno è entrato, né uscito nell’ultima ora. L’assassino è sicuramente ancora nel locale».
Flavio si intromise.
«Ispettore, se vuole l’aiuto a fare gli interrogatori. Così velocizziamo il tutto».
Ducato ci pensò su qualche secondo, poi annuì parecchie volte con la testa, senza dire nemmeno una parola.
Flavio mi strattonò e mi fece un sorriso che non mi piacque affatto:
«E naturalmente mi aiuterà anche Alex, non è vero?».
Annuii controvoglia, perché volevo gironzolare per trovare qualche indizio, non sorbirmi le cavolate di trenta persone.

Cominciammo gli interrogatori, mentre Bianca e Andrea se ne stavano in disparte nella hall del ristorante assieme alla receptionist e ai camerieri.
Ad un tratto decisi di allontanarmi.
«Torno subito» avvisai.
«Dove vai? Non crederai di aver finito, vero?».
«No di certo» dissi a Flavio con aria innocente. «Ma credo di aver perso il cellulare. Vado a cercarlo e torno».
Sono un brutto bugiardo, lo so.
Mi recai in bagno, naturalmente.
«Avete scoperto qualcos’altro?» domandai a Novato.
Prendeva appunti su un block notes e sembrava misterioso.
«Ancora no, Alex. Tu hai finito con gli interrogatori?».
«Oh, ecco, io sono … ma avete notato che la scena del delitto è immacolata?».
«È una delle cose più strane, infatti. Dico, l’uomo è morto per un colpo di arma da fuoco e ovviamente avrà perso parecchio sangue» fece ampi cerchi con le braccia. «Ma intorno a lui non c’è nemmeno una macchia di sangue. Qualcuno ha pulito prima che scoprissimo il corpo».
Ducato interruppe la conversazione.
«E se l’assassino avesse ucciso la vittima lontano dai bagni? Poi l’ha ripulita e infine l’ha trasportata qui. Forse si è caricato la vittima con la pancia rivolta verso l’alto. In quel modo il sangue in eccesso non sarebbe eccessivamente colato, non credete?».
«Potrebbe essere …» osservai.
«Ma Alex … tu non aiutavi Flavio negli interrogatori?».
«Sì, ma …».
Poi mi ignorò e si voltò verso un agente della scientifica.
«Provveda all’esame del luminol, agente».
«Quello che non riesco proprio a capire» disse l’agente Novato portandosi una mano tra i capelli e la biro tra i denti «è come mai l’assassino si sia preoccupato di ripulire la scena del crimine».
Rimanemmo in silenzio.
Azzardai: «E se il sangue dell’assassino si fosse mescolato a quello della vittima? Al momento delle analisi sarebbe stata una prova inconfutabile, non credete?».
«In questo modo manterresti viva l’ipotesi di una colluttazione».
«Esatto, ispettore».
«La cosa ancor più strana è che sugli abiti dei sospettati non c’è alcun residuo di polvere da sparo. Sembra che a sparare sia stato un tizio privo di consistenza fisica».
«Tipo un fantasma?».
«Quella roba lì …».
«Ispettore Ducato» chiamò un altro agente. «Abbiamo identificato la vittima. Si chiamava Federico Araghini, aveva trentasette anni e faceva l’ingegnere».
«Single? Con dei figli …?».
«Era single, mai sposato e viveva da solo a circa quattro isolati da qui».

Uscii dal bagno per ragionare meglio e mi sedetti su uno sgabello appoggiato in uno dei corridoi secondari del ristorante. Mi ero messo a fissare un punto indefinito del muro, senza particolare ragione logica, ma solo per riordinare le idee. I pensieri mi fluivano in testa così rapidamente che avevo paura che si fossero dissolti da un momento all’altro.
Per asciugare il sangue doveva aver usato qualcosa di assorbente, non certo dei fazzoletti di carta, altrimenti avrebbe dato anche nell’occhio e li avrebbe finiti quasi subito.
Perlustrai ogni singolo bidone della spazzatura, finché passai in cucina e mi beccai una spinta da uno chef con il fisico di un lottatore di sumo professionista. Dopo qualche minuto, in un cestino riservato per la raccolta differenziata della plastica, trovai qualcosa di interessante: due spugnette umide e macchiate di una tonalità rossastra.
Mi sfilai il fazzoletto di stoffa dalla tasca dei jeans, presi le due spugnette e le misi all’interno di una bustina di plastica trasparente che avevo rubato dalla cucina. Nascosi la bustina nella tasca interna della giacca e quando percorsi il corridoio principale notai che nessuno dei presenti aveva una benda, un cerotto, un taglietto, o un qualsiasi segno evidente di una colluttazione recente.
L’ipotesi furto era stata scartata a priori dalla polizia. Tutti gli effetti personali della vittima, tra cui portafogli e documenti di riconoscimento, erano rimasti sul tavolo trentadue a cui sedeva.
E se la ferita dell’omicida si fosse trovata in bocca? Se la vittima avesse sferrato un pugno disperato al suo assassino e gli avesse rotto un dente?
Decisi di tornare in sala, dove notai che Bianca e Andrea si erano avvicinati a Flavio.
«Dove diamine eri sparito? Ne ho fatti altri tre, mentre eri via» mi domandò Flavio. Era così sudato che sembrava reduce da una corsa contro Usain Bolt.
«Sono … sono andato a cercare il mio cellulare. Te l’ho detto, no?» e sorrisi come un ebete.
«E dove sei andato a cercarlo? A Los Angeles? Sei sparito da più di mezz’ora!».
«No, l’ho cercato per tutto il ristorante e così …».
Per il momento era meglio non rivelargli nulla delle spugnette.
«Sai, la polizia ha notato che non ci sono tracce ematiche attorno al corpo della vittima» gli comunicai.
«Davvero?».
«Già. Nessuno ci aveva fatto caso, ma ho …» mi ripresi. Se avesse saputo delle mie indagini personali, sapete che dramma.
«Ma io ho sentito che ne parlavano … naturalmente io ero fuori il corridoio».
Guardandomi diffidente sussurrò: «Quindi non hai fatto alcuna …».
«No, no, ma per chi mi hai preso?».
«Per quello che sei» mi bisbigliò Bianca nell’orecchio.
«Che ti ha detto?».
«Ma niente, Flavio. Perché non vai a controllare in bagno? Qui ci penso io».
«Sul serio?».
«Ti do il cambio».
Si allontanò lasciandomi il posto. «Stai migliorando, nel carattere, sai?».
«Dovere»
Mi sedetti, ma Bianca e Andrea mi guardavano male, come se non si fidassero di me.
«Be’? …».
«Dicci la verità. Hai trovato qualcosa, non è vero?».
«Se così fosse l’avrei detto a tuo padre, non credi?».
«No, per niente. Io penso che la questione del cellulare sia stata solo una scusa per curiosare in giro senza papà. Con me puoi ammetterlo, non sono mica lui».
Esplosi in una risata imbarazzante, mentre una signora dall’aria snob mi guardava sottocchio.
«Ahem …».
«Allora?».
«Allora potete farmi una cortesia?».
«Certo, fratellone» rispose Andrea.
«Chiamate un agente dalla hall e fate continuare gli interrogatori». Mi alzai di scatto. «Io devo …».
Bianca mi sorrise maliziosamente. «Andare a cercare l’altro cellulare, non è vero? Quello che non esiste, no?».
Socchiusi gli occhi e sorrisi forzatamente. «Già. Perspicace … voi rimanete qui e ascoltate quello che la gente dice. Può essere che uno di loro si tradisca».

Ma non mi ascoltarono e me li ritrovai dietro a nemmeno due minuti da quella conversazione.
«Vi ho detto di rimanere lì, ma ci sentite?».
«E tu credi che siamo scemi?».
«Bianca, io …».
«E che ti credi che siamo scemi?» rincarò la dose Andrea.
Mi fece sentire un perfetto idiota e rimasi zitto per qualche secondo, perché non avevo davvero più parole.
«Tu sospetti dei tre del trentadue, non è vero?» mi indicò ripetutamente.
«Dì un po’» e le portai la mano accusatoria al fianco «Da quando sei così sveglia?».
«Da quando ho imparato a conoscerti un po’ meglio … ma poi perché dovrebbero esser stati proprio loro?».
«Uno sconosciuto non ammazza senza una ragione un altro sconosciuto. Solo un folle lo fa e se ci fosse stato un esemplare, diciamo particolare nel ristorante, l’avremmo notato, non credi?».
«E se qualcuno avesse ucciso in preda ad un raptus?».
«Anche in quel caso avremmo dovuto sentire, trovare qualcosa. La scena del delitto è pulita, la vittima non ha nemmeno urlato quando ha visto il suo aggressore impugnare l’arma da fuoco e sparargli e …».
«Insomma, non ti convince, eh?».
«Per niente. È tutto troppo perfetto, troppo pulito, troppo trasparente. No, quelli al tavolo c’entrano qualcosa, dammi retta».
Mi passai una mano tra i capelli. «A proposito, dove sono finiti quei tre?».
«La signora è nel bagno. La polizia l’ha fatta chiamare perché voleva che osservasse il cadavere».
«Volevano vedere se aveva qualche strana reazione, sicuramente».
«Il signore biondo l’ho visto parlare con un membro dell’amministrazione fino a due minuti fa, mentre quel tizio burbero che per poco non faceva a botte con papà guarda la tv nell’atrio. Mi è parso molto scosso».
«Vado a guardarla anch’io».
«Eh? Ma lascialo in pace!».
«Sciocchezze. La compagnia è sempre ben accetta, non credi?» e le strizzai l’occhio.
«Se lo dici tu …».

Edited by Matteo Del Piero - 4/8/2013, 18:51
 
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Mi scuso per il ritardo, ma ci sono state le festività e allora ... :lollo:

FILE 22 – Trucco diabolico



Non nego che mi sentii un vero idiota, ma svelare le mie intenzioni in quel momento sarebbe stato un suicidio investigativo.
Andai nella direzione in cui era seduto il signore che circa un’oretta prima aveva litigato con Flavio. Era accomodato ad un divanetto arancio spento e guardava sulla pay-tv un programma di cabarèt.
«Sa, li adoro anch’io» esordì sedendomi vicino a lui.
«Non trovi siano rilassanti?».
«Assolutamente. Gradisce un bicchiere di vino? Vorrei scusarmi per la reazione del mio amico. Aveva bevuto un po’ troppo. Mettiamoci una pietra sopra, le va?»
Ci pensò anche su, come se non bastasse il dovermi sorbire quella faccia per tutta la serata. Alla fine concesse la grazia. «Certo, anche se mi ha fatto davvero arrabbiare».
«Lo immagino. Lei si chiama?».
«Borghetti. Claudio Borghetti. Molto lieto».
Feci per prendere la bottiglia di vino, ma questa mi scivolò dalle mani e un po’ di liquido finì sulla giacca dell’uomo.
«Dio, che disastro. Mi scusi davvero. Non volevo»,
«Non preoccuparti, sono bazzecole».
«Le do una mano a smacchiare la giacca».
«Non ti preoccupare. La macchia va via da sola».
«Non dica sciocchezze, si tratta di vino!».
«Insomma, non insistere, ragazzo!» e incredibilmente cambiò tono di voce. Da pacata e gentile divenne severa e ruvida.
Bianca mi guardava cercando di capire dove volessi arrivare, ma ormai l’avevo in pugno.
Mi avvicinai al suo orecchio e gli sussurrai:
«Dica la verità, signor Borghetti. Ha commesso lei il delitto, non è vero?».
Per un attimo non rispose. Notai il suo sbattere di palpebre più frenetico e una piccola vena che gli pulsava dalla tempia. Prima di rispondere trasalì.
«Che cosa stai dicendo?»
«La verità, è ovvio».
«Tu vaneggi».
Mi alzai di scatto e cominciai a guardarlo. «Vediamo … circa cinquant’anni … deve aver fatto il militare intorno agli anni settanta, forse anche inizi ottanta».
«Come sai che ho fatto il militare?» adesso era stupito.
«L’ha detto lui, non è vero Alex?» domandò Bianca, che intanto aveva assistito a tutta la scena.
«No, non l’ha detto, ma si può dedurre da alcuni indizi. Il suo portamento fiero ed elegante è evidente frutto di una correzione. A tavola faceva di tutto per non curvare la schiena e in più quella medaglietta che porta al collo è sicuramente un onorificenza di qualche genere, non è vero?».
«Sei uno stupido» mi disse sempre sussurrando. «Ok, ho fatto il militare per sette anni, ma sai che non puoi incolpare qualcuno senza prove?».
«Ma io le prove le ho!».
Impallidii. «Non dire idiozie! Non sono stato io».
«Lei è andato in bagno pochi minuti prima della vittima, poi è uscito ed ha trovato il cadavere, giusto?».
«Giusto, ma non per questo …».
«Vuole parlarmi delle spugnette?».
«Quali spugnette?».
«Che grande attore! Mi riferisco alle spugnette che ho ritrovato nella spazzatura e che lei sicuramente ha utilizzato per pulire il sangue attorno al corpo della vittima. Sappia che ci sono sicuramente le sue impronte digitali ed il suo DNA visto che si è preoccupato di ripulire tutte le tracce ematiche. Non so, forse ha avuto una colluttazione con la vittima ed ha cominciato a sanguinare. Non poteva permettere che due tipi di sangue diversi si mescolassero. Se qualcuno si fosse insospettito sarebbe stata una prova schiacciante».
«Tutto qui?».
«Vuole sputare, signor Borghetti?».
«Ma … che razza di domanda è?».
Intanto arrivarono Ducato e Flavio, chiamati da mio fratello Andrea. Hai capito, il piccoletto.
«Vediamo se la sua saliva è in condizioni normali».
«Ma che c’entra la mia saliva? Non capisco!.
Già, Alex, che vuoi dire? Fece Bianca.
«Non avendo ferite evidenti sul corpo, sono sicuro che la vittima l’ha colpita molto forte sui denti. Forse le ha sferrato un pugno e lei ha cominciato a sanguinare dalla bocca. Vediamo se la sua saliva è in condizioni normali o magari c’è del sangue nella sua bocca! Lei ha commesso il delitto e come gesto di stizza ha sputato sulla pavimentazione del bagno, non è vero? Poi si è reso conto di aver fatto una sciocchezza, è andato in cucina passando dalla porta secondaria ed ha prelevato una di quelle spugnette per lavare i piatti o magari se l’era già portata da casa. Ha asciugato il tutto e poi ha buttato nella spazzatura. Sappia che l’ho recuperato, negare è inutile» e così dicendo estrassi la bustina dalla tasca interna della giacca.
Ora guardava il vuoto, ma decisi di pigiare sull’acceleratore e di continuare.
«E guardi i suoi abiti. Crede che non mi sia accorto che la giacca che indossa ha bottoni diversi rispetto a quelli della giacca che indossava ad inizio serata? Quelli avevano degli strani graffi decorativi, mentre questi sono semplici. Si è cambiato anche la camicia, vero? Scommetto che prima di commettere il delitto se l’è rivoltata insieme alla giacca per paura di macchiarsi. Questo perché i suoi vestiti sono double face, ma differiscono solo di piccolissimi particolari. Anche la camicia è praticamente uguale, fatta eccezione per qualche insignificante dettaglio. Nella fretta, però, ha dimenticato di cambiarsi di nuovo la giacca».
«Devo farti i complimenti. Sei molto intuitivo per essere pressoché un poppante. Sì, l’ho ucciso io, ma non me ne pento affatto! Quel bastardo ha stuprato una ragazza il mese scorso, riducendola in fin di vita. Quella ragazza era mia cugina. Credevo non lo sapesse, ma poi mi ha confessato di aver scoperto tutto! Doveva morire!»
Seguì un attimo di silenzio.
Poi si alzò di scatto dal divanetto, mi diede un violentissimo spintone e mi fece cadere a terra.
«Maledetto!» e cominciò a correre verso l’uscita dal ristorante. «Non mi farò arrestare da voi, piuttosto mi ammazzo!».
«Prendetelo, ragazzi! Bloccate le uscite!» urlò Ducato.
Quel tizio mise KO ancora un altro paio di agenti, prima di essere fermato da un baldo cameriere che si trovava lì per caso. Il ragazzo aveva un pesantissimo piatto in mano e glielo diede talmente forte sulla fronte che per un attimo non tememmo un ulteriore omicidio, stavolta senza misteri.

Quella sera, in macchina, eravamo talmente stanchi che crollai addormentato. Quando mi svegliai trovau Flavio a fissarmi mentre guidava.
«Oh, vuoi guardare avanti?».
«Io so guidare, non darmi lezioni. Tu piuttosto, quando la finirai di avere manie di protagonismo?».
«Quando sarò vecchio e decrepito come te, logico».
«Ti salvi che sto guidando, ma quando arriviamo a casa facciamo i conti. Il colpo del cameriere ti sembrerà uno scherzo».

NEXT FILE: Inizia un'avventura importante! Stay tuned!
 
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view post Posted on 15/1/2013, 22:35     +1   +1   -1
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Eh eh...sono ancora indietro con la trama, ma si sta rilevando davvero interessante! ^_^
So che forse l'avranno già detto, ma sembra che Alex abbia un po' di...Sherlock! Casualità? :lollo:
Comunque, bravo. :)
 
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view post Posted on 29/1/2013, 17:44     +1   -1
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CITAZIONE (Poirot's apprentice @ 15/1/2013, 22:35) 
Eh eh...sono ancora indietro con la trama, ma si sta rilevando davvero interessante! ^_^
So che forse l'avranno già detto, ma sembra che Alex abbia un po' di...Sherlock! Casualità? :lollo:
Comunque, bravo. :)

Uao! Grazie mille! Ho visto solo adesso il commento perchè non aprivo il topic da un po', ma spero continuerai a seguirmi ;)
 
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FILE 23 – La visita




Borgo Vittoria, quartiere di Torino.
Ore 3 e 45 del mattino.


Borgo Vittoria, quartiere di Torino.
Ore 3 e 45 del mattino.

C’è una vecchissima fabbrica in disuso a Torino, in cui certa gente si incontra con costanza e continuità. Trattasi di un luogo sporco, sudicio, infimo, che il più delle volte accoglie sempre loschi figuri e pullula di cattive compagnie. Di giorno, nel primo pomeriggio, è utilizzata per qualche sveltina tra adolescenti eccessivamente passionali e che non condividono ancora un tetto. Il piano terra della fabbrica è enorme e molto ampia. Si estende per almeno cinquanta metri in lunghezza e trenta il larghezza. A terra ci sono striscioni di contestazione con scritte dure verso i politici che dovrebbero rappresentarci, vecchi pneumatici impolverati, assi di legno schiodate dai piani superiori, bulloni, viti, cacciaviti e ogni genere di attrezzo possa venire in mente. C’è polvere, tanta polvere e ci sono ratti portatori di malattie, che sbucano all’improvviso dall’oscurità, piccoli cani randagi abbandonati al loro destino, gatti infetti e animali vari che provengono anche dalla campagna.
Tre moto sono ferme. Le prime luci del mattino filtrano attraverso le finestre di legno marce, i vetri incrinati e accarezzano chiunque si ponga davanti a loro.
Due Yamah XJR, una grigio perla e l’altra viola e una Hayabusa 1300 Final di colore nero smaltato.
Sulla Hayabusa è seduto un tizio di circa venticinque anni. È giovane, bello, muscoloso, ma possiede uno sguardo vitreo e ha la barba incolta, trascurata. Il suo fisico sembra scolpito nel marmo e la sua postura è dritta, longilinea.
«Roberto» gli fa il proprietario della Yamah viola, un tipaccio tarchiato, con gli occhi piccoli e stretti e con un orecchino da duro al labbro inferiore.
«Perché Diletta non è venuta all’appuntamento?».
L’uomo tira una boccata intensa alla sigaretta ed espelle il fumo dritto in faccia al suo interlocutore.
«Aveva un affare col boss, lo sai».
Il tizio tarchiato urla:
«Quel depravato! Sua moglie non ha fatto in tempo a salutare ‘sto mondo, che lui già l’ha sostituita. Cazzo, sembra che …». Sul suo viso c’è un sorriso malizioso, ma questo scompare quando incontra lo sguardo aggressivo di Roberto.
«Valerio, parla ancora così del principale e ti spappolo il cervello».
Valerio guarda Roberto e gli elargisce un’espressione scettica. «Su, non scherzare …».
Ma Roberto estrae repentinamente una pistola, una Magnum 44, e gliela punta al centro della testa. Tutto si svolge in poco più di un battito di ciglia, ma le conseguenze di quello spavento saranno portate a lungo nel tempo.
«Ti piace scherzare così?».
Valerio comincia a sudare freddo e gli occhi effettuano un frenetico movimento incontrollato.
«Roberto, togli quella … togli quella bomba».
Alcuna risposta. Gli occhi neri dei due si incrociano e Valerio cede con lo sguardo.
«Come cazzo ti devo chiamare? Signor Festo? Ti devo implorare? Togli quella fottuta bomba dalla mia faccia, non voglio che …».
Roberto fa scattare l’arma e una gocciolina di sudore cade dal cranio di Valerio, raggiungendogli le sottili labbra. Ma la pistola non esplode alcun colpo e Roberto inarca un sopracciglio beffardo, aggiungendo al tutto un sorriso sarcastico.
Valerio ci avrebbe pensato due volte, la prossima volta che avrebbe voluto scherzare con Roberto. C’era un motivo per cui nell’ambiente lo chiamavano Cursed, cioè maledetto ed era perché non traspariva sentimenti, nessuna emozione visibilmente chiara, condizione psicologica che gli aveva fatto collezionare decine di omicidi nudi e crudi su vittime che avevano osato fare uno sgarbo al clan, o al boss, principale, o come volesse chiamare quel vecchio depravato del suo superiore.
Roberto ripose la Magnum nella fondina, poi si rivolge al proprietario della Yamah grigio.
«E l’altra donna? La ragazzina, intendo?».
Giulio ha pochi capelli, è stempiato sul davanti, ha la fronte alta e lo sguardo è marchiato da talmente tante esperienze diverse da potersi permettere il lusso di poterle racchiudere in un libro.
«Sta preparando una missione contro quel tizio che il boss non può vedere, ma Diego mi ha detto che è ancora all’inizio della preparazione».
«Quell’uomo mi dà i brividi» commenta ancora Valerio. «A volte sa essere più spietato del padre. Un vero demonio».
Valerio ha voglia di parlare.«E quel vecchio che abbiamo picchiato a sangue mesi fa?».
«Il principale lo ha fatto risparmiare, ma non mi sarebbe dispiaciuto affatto vederlo a pezzi e mangiato dai ratti». Risponde Giulio
Roberto vuol dire la sua: «Lo sai perché ce lo ha fatto risparmiare. Ormai è vecchio e anche se ha provato a tradire il clan, Mauro non ha dimenticato tutto ciò che ha fatto in questi anni».
«E se divulgasse i nostri piani? Cazzo, vado lì e …».
«Rilassati». Roberto accende il motore della moto e fa per partire. «È moribondo. L’abbiamo quasi ucciso, l’altra volta. E poi è molto malato. Non durerà a lungo».
Le tre moto scompaiono e prendono direzioni diverse. I tre uomini si scambiano un ultimo cenno di assenso, che ha i contorni di un linguaggio conosciuto esclusivamente da loro. Hanno il potere di poter essere i registi del destino delle altre persone.


La Fiat Croma di Flavio aveva già un po’ di anni. Mi aveva detto, in una chiacchierata, di averla comprata già usata circa tre anni prima. Quel giorno faceva talmente freddo che nessuno di noi avrebbe voluto lasciare casa. Bianca aveva un libro da finire, poiché l’indomani ne avrebbe dovuto discutere a scuola e Andrea voleva guardare in tv il suo programma preferito, un cartone animato sui … robot ninja, o qualcosa di simile. Ma Flavio aveva tuonato: «Venite con me» e dunque non c’era stato nulla da fare.
Sergio e Fabio erano stati furbi. Il primo aveva esplicitamente detto che avrebbe passato il pomeriggio a riordinare le carte dello studio investigativo, perché aveva molto lavoro arretrato. In quanto a Fabio, disse di voler studiare dei vecchi appunti di medicina e di provare a ripassare qualcosa per l’imminente esame di istologia. Flavio aveva insistito fino all’ultimo per portarlo con noi, ma quando un padre sente la parola “studio” collegata “figlio”, perde anche l’ultimo neurone attivo.

Il motivo per il quale ci eravamo vestiti di tutto punto era che Flavio, qualche giorno prima, aveva ricevuto via posta elettronica una mail di una sua vecchia amica, che lo aveva invitato a casa sua con la scusa di rivederlo. Il reale motivo di questa visita era però riconducibile al padre della ragazza, una figura che lo stesso Flavio aveva definito «fondamentale» per la sua infanzia. Non vedeva l’ora di rivedere i suoi vecchi amici e anche se tentava di nasconderlo era visibilmente emozionato.
«Come hai conosciuto questa tua vecchia amica?» esordì Bianca staccando gli occhi dal libro che si era portata dietro, un mattone di almeno millecinquecento pagine.
«Da bambini vivevamo nello stesso quartiere. Eravamo vicini di casa e così ogni pomeriggio giocavamo insieme».
«Ha la tua età, allora?» domandai.
Annuì. «Si chiama Maria Grazia ed è disegnatrice d’interni».
Bianca lanciò un urletto di ammirazione. «Fantastico!».
«Negli ultimi anni ha anche fatto carriera. Ha avuto un gran successo all’estero: Londra, Las Vegas, Eindhoven, Tokyo».
«Da quando non la vedi?» chiese Bianca.
Flavio svoltò in una stradina acciottolata e cambiò stazione radio, passando dalla musica energica e vitale dei Bon Jovi a quella frizzante e contemporanea dei Semisonic, che adesso cantavano Closing Time.
«Saranno circa dodici anni. Eravamo ad una vecchia riunione di compagni di scuola».
«Accidenti! Come fanno due persone che vivono nella stessa città a non vedersi per più di dieci anni? Non vi siete mai incontrati nemmeno per caso?» disse Bianca.
«Ma lei non ha vissuto sempre qui. Dopo la laurea ha avuto l’opportunità di andare a fare degli stage in Olanda, così si è trasferita ad Amsterdam per circa tre anni. Poi la sua carriera l’ha fatta girare … ».
«E ti piace?» ora le sue labbra avevano la forma di un cuoricino e i suoi occhi si erano socchiusi cercando di nascondere la curiosità.
«Bianca, questo è il colmo. Un investigatore privato soggetto ad un interrogatorio. Comunque, no. Lei è solo un’amica».
«Uh, come sei suscettibile».
«Io, suscettibile?».
«Già. Ho diciassette anni, dannazione. Pensavo di passare il pomeriggio a leggere la parte finale del mio libro» e incrociò le braccia sul sedile portandosi il volume sul grembo. «Domani devo parlarne a scuola e non sono nemmeno a metà».
«Non potevo lasciarti a casa da sola, lo sai. Sono un detective che attira odio attorno a sé».
«Che libro è?» sussurrò Andrea dolcemente. Si era messo ad accarezzarne la copertina con fare sontuoso ed era quasi preoccupato di sciuparlo.
«Guerra e pace di Tolstoj» e gli carezzò il capo.
«E parla di detective?».
La ragazza sorrise. «No, ma è un meraviglioso romanzo storico e poi i personaggi sono così …».
Ma Andrea aveva già distolto l’attenzione.
Bianca gli lanciò uno sguardo disperato. «Sei proprio come tuo fratello …».
«Ovvero?» mi voltai lanciandogli uno sguardo diffidente.
«Fissato con i misteri e con i gialli. Solo con i misteri e con i gialli».
«Cosa c’è di più stimolante di scoprire una verità nascosta?».
Abbozzò uno sbadiglio. «Sarà … ma non è proprio il mio genere».
«Devi riuscire a vederla come una sfida. O una partita a scacchi, come vuoi …».
Mi osservò interrogativa.
«Tu quando giochi a scacchi devi usare il cervello. Fatichi, ma devi farlo. Be’, un libro giallo è una sfida dello scrittore al lettore. Sta a te che leggi scoprire l’assassino. Lo scrittore ti sottopone la situazione e tu …».
«Come sei profondo!» mi interruppe Flavio agitando le mani. «Devo dedurre che abbandonerai la professione per dedicarti alla filosofia?». Poi continuò, cercando di sistemarsi il nodo della cravatta mentre guidava. Un folle, praticamente.
«Comunque questo appuntamento è per me molto importante. Maria Grazia è una vecchia amica. Comportatevi bene, mi raccomando.»
Il viaggio in macchina durò circa venti minuti. Attraversammo sentieri di pietra e stradine secondarie, finché non ci trovammo di fronte ad un appartamento in pietra, uno di quei vecchi mattoni che erano stati posati poco dopo la seconda guerra mondiale. All’apparenza sembrava un rudere, ma probabilmente chi ci abitava aveva le idee chiare e l’aveva arredata secondo i propri gusti. Suonammo il citofono e aprirono quello che qualcuno avrebbe apostrofato come cancelletto. Procedemmo quindi in un piccolo cortile con un sentiero pieno di sassi e di erba tagliuzzata male.
«Flavio!» urlò una signora con i capelli neri corvini raccolti in uno chignon.
«Maria Grazia! Da quanto tempo! Come stai?» e Flavio la abbracciò calorosamente.
La donna si appese al collo del mio amico e per un attimo volteggiò in aria.
Mi voltai più volte, ma non vidi alcuna telecamera, dunque non doveva essere stato programmato.
Imboccammo una sorta di corridoio esterno sempre in pietra viva e ci salimmo sui gradini di una scala a chiocciola, che dava su un locale abbastanza ampio, pavimentato da parquet e arredato secondo la pop art. C’erano tre divani violacei e un tavolino rettangolare in legno nero lucidato. Due grandissimi televisori erano appesi alla parte e sull’impianto stereo vi erano almeno cinque telecomandi. Mi domandai se servisse un apposito manuale per poter imparare ad usarli tutti. Un’ampia vetrata dava la visione sul caotico e confusionario paesaggio di città, contraddistinto dal fremito e dal costante brulicare di mamme in ritardo sulla tabella di marcia, lavoratori reduci dalla pausa pranzo e teppistelli di periferia addobbati come rapper di quart’ordine. Ah, la cara città.

Edited by Matteo Del Piero - 7/8/2013, 11:35
 
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FILE 24. Maria Grazia



La signora Maria Grazia Losti, questo il suo cognome, fece di tutto per dimostrarsi una padrona di casa essenziale ed esemplare. Le sue premure erano semplici e mai eccessive e ricevere le sue attenzioni era un piacere per la gioia del cuore. Mi domandai se una donna potesse essere davvero così dolce nel lungo periodo e pensai a cose che hanno a che fare con la biologia che onestamente non mi sento nemmeno di trascrivere.
«Non mi presenti i tuoi ragazzi?» chiese Maria Grazia a Flavio.
L’uomo parve irrigidirsi, ma poi riacquisì la solita calma. Inarcò le sopracciglia e si scusò.
«Lei è mia figlia Bianca, mentre il ragazzo che le sta accanto è un amico di famiglia, Alex. Il piccoletto è suo fratello e si chiama Andrea».
Salutai con quello che credetti essere il mio sorriso migliore.
Bianca le disse: «Molto piacere, signora Losti. Papà ci ha parlato di lei, negli ultimi giorni e …».
«Solo negli ultimi giorni?» domandò maliziosa. «Comunque puoi chiamarmi Maria Grazia e, cavoli, lasciatelo dire, sei incredibilmente somigliante a Giulia». Si voltò verso Flavio. «Davvero, è una cosa impressionante. Davvero impressionante!».
Bianca si illuminò in viso e la sua felicità divenne anche la mia.
«Lei conosceva la mamma?» chiese ammirata.
«Puoi dirlo forte! Io e Giulia siamo state compagne di scuola alle medie e alle superiori, mentre tuo padre frequentò completamente un’altra scuola. Io e tua madre non eravamo in classe insieme – lei era più piccola di me di due anni – ma comunque eravamo grandi amiche» poi si inclinò verso Flavio. «E quando, nel pomeriggio, ci riunivamo tutti insieme, lui» e lo indicò col dito indice aveva «già una simpatia tutta particolare per lei e quando, nel 1987 …».
«Ma la vuoi piantare?» la interruppe Flavio.
Maria Grazia lo prese ancora un po’ in giro. «Oh, perdonami se ti faccio rivivere gli anni più belli e speciali della tua vita».
Sul viso di Flavio si dipinse un lieve sorriso. Poi roteò gli occhi al cielo e abbracciò ancora la sua amica.
Non sapevo personalmente nulla della signora Moggelli, tranne che non era più tra noi. Qualcosa di brutto doveva averla strappata dalla vita nel fiore degli anni e quel qualcosa era ben vivo nel cuore di Flavio e soprattutto lo era nella sua testa. Ogni qualvolta si parlasse di Giulia, i suoi occhi diventavano spenti, il suo linguaggio del corpo comunicava angoscia e preoccupazione e le sue espressioni facciali rappresentavano l’anti-felicità.

Stavamo ancora parlando del passato, tra risate e vecchi ricordi, quando la porta in stile far west’s saloon si spalancò alle nostre spalle.
«Maria, Flavio è arrivato?».
La donna si limitò a sorridere e l’uomo, non appena incrociò lo sguardo di Flavio, fece lo stesso. I due si salutarono affettuosamente e l’uomo, un tizio con la barba lunga ed incolta e i capelli rasati quasi a zero, si accomodò sul bracciolo del divano su cui erano seduti Flavio e Maria Grazia.

«Riccardo, da quanto tempo … certo che sei cambiato parecchio …».
«L’esperienza militare ti forgia in maniera diversa».
«Immagino … e adesso che fai nella vita?».
Alzò la mano e sorrise, come per confessare un reato che non aveva commesso. «Sono supervisore biologico in un’azienda agricola, ma è solo un impiego temporaneo».
Fummo interrotti di nuovo.
Di fronte a noi si parò una donna sulla trentina, con lunghi capelli castani e profondi occhi verdi. «Flavio, sei proprio tu! Che bello vederti!» .
E di nuovo abbracci e baci e ricordi e presentazioni. Per un attimo pensai di buttarmi giù, perché vedevo nelle false isole felici la vera rovina del nostro mondo. Poi mi ricordai che eravamo al terzo piano e desistetti.
«Patrizia, lasciatelo dire, sei decisamente …».
«Bella? Affascinante? Straordinariamente bella?».
Di certo la modestia non era tra le sue doti.
«Ti ricordi di me, vero?».
«Certo che mi ricordo di te!» esclamò Flavio «E tu ricordi quando rompemmo quel vaso greco a cui vostra madre teneva tanto? Che ramanzina, ragazzi!» si voltò verso me e Bianca, richiedendoci probabilmente qualche risolino di convenienza. Ma nessuno di noi lo fece e Flavio ci guardò storto, contemplandoci nella nostra cinica inerzia.
«Quando durerà, ancora?» chiesi sottovoce a Bianca.
«Spero non molto, altrimenti lo stendo qui di fronte a tutti» mi rispose bisbigliando.

La conversazione andò avanti per due ore buone, che costituiscono un tempo ragionevole per amici di vecchia data che non si vedono da tempo, ma che sono invece interminabili per chi, come me, si trovava lì per caso e non vedeva l’ora di andare via.
Flavio domandò: «Dove sono i vostri genitori? Non vedo l’ora di rivederli» e posò la tazzina di caffè sul tavolino rettangolare.
«Be’» disse Riccardo. «Papà è a letto» prese fiato ed espirò a lungo «Credevo sapessi che fosse malato».
Un velo di oscurità attraversò gli Flavio e il labbro inferiore cominciò a tremare nel tentativo di farfugliare qualcosa di sensato.
«Veramente … no. Mi dispiace molto».
«E mamma è andata via qualche anno fa per un incidente stradale» continuò Patrizia.
«E mio padre è un disastro. Perdonatelo» fece Bianca raccogliendosi i capelli in una coda di cavallo «Perdonatelo per la domanda indiscreta, vi prego».
«Ma figuriamoci, non poteva saperlo, ci siamo persi di vista per molto tempo» la rassicurò Maria Grazia.
Patrizia si alzò dal divano e si portò dietro un wafer. «Vado a controllare come sta. Torno subito» e sorrise.
Passò relativamente poco tempo, a dirla tutta solo qualche secondo da quando Patrizia lasciò la stanza a quando cominciò ad urlare attirando l’attenzione di tutti. Maria Grazia e Riccardo dapprima sobbalzarono, poi si alzarono di scatto e successivamente tutti noi raggiungemmo la camera da letto da cui provenivano le urla.

Ciò che vedemmo fu orribile.
Il signor Losti, un uomo anziano, dall’aspetto gracile e debilitato era a terra in preda a delle convulsioni violentissime che gli facevano impattare la fronte al suolo. Sbatté con la testa almeno tre o quattro volte, prima di riuscire quantomeno a cambiare posizione. Adesso era a pancia all’aria e la sua espressione era spaventosa. I movimenti dei muscoli erano ampi e veloci e gli occhi erano completamente girati all’indietro. L’uomo continuava a soffrire imperterrito al suolo, con i suoi figli impotenti di fronte alla severità del destino. Tutti noi osservavamo la scena ad occhi sbarrati, con l’agitazione nel cuore e la paura che si insinuava in ogni pertugio della nostra anima. Maria Grazia parlò di epilessia, chiedendo ai suoi fratelli dove fosse il numero di telefono del medico di famiglia. Fortunatamente la crisi si concluse dopo circa un paio di minuti e il signor Losti si quietò con la stessa rapidità con cui aveva cominciato a sobbalzare. Era ancora a terra, con saliva e muco vicino alla bocca.
Tutti e tre i figli sollevarono loro padre a fatica e lo rimisero nel letto prestandogli tutte le attenzioni necessarie.
Dopo circa quindici minuti di panico tornammo nel salotto.
«Da quando è malato vostro padre?» chiese Flavio.
«Ormai sono più di sette anni» rispose Riccardo.
«Quindi da molto tempo. E ha queste crisi da sempre?».
«Be’ le crisi fanno parte dell’epilessia. Le ha da quando è malato. Ma ultimamente ha aumentato la frequenza. Prima ne aveva una o due al mese. Adesso purtroppo ne ha almeno due o tre alla settimana»
«Il medico che dice?».
«Bah, ha solo prescritto alcune medicine, ma sembrano impotenti. L’epilessia è una tigre che ti assale quando meno te lo aspetti».
«Mi dispiace infinitamente. Vostro padre … insomma, lui era un esempio di dedizione al lavoro. Sempre nei campi, dalla mattina alla sera».
«Papà è speciale. Be’ sarà meglio che vada a dargli la sua medicina» disse l’uomo alzandosi.
Riccardo uscì dalla cucina con un vassoio argentato. Su di esso, vi era un bicchiere di vetro ed una scatola di farmaci di colore arancio.
«Aspetta» lo fermò Maria Grazia. «Fammi vedere se gliel’hai sciolte come si deve».
La donna afferrò il bicchiere dall’alto, facendoselo passare da Patrizia che quasi, per lo spavento di poco prima, non lo rovesciava.

Servirono anche dei pasticcini al cioccolato, quel pomeriggio e mi dovetti contenere, almeno per la buona educazione. Ne mangiai quattro, giuro, non uno in più, ma avrei voluto moltiplicarli.
«Riccardo, tu sei allergico al cioccolato, vero?».
L’uomo apparve sorpreso. «Te lo ricordi ancora? Sorprendente!».
«E tu, Patrizia? Non ne prendi nemmeno uno? Guarda che sono buonissimi».
«No, no. Ho appena deciso di mettermi a dieta» sussurrò.
Era appena tornata dal bagno e mi domandai cosa avesse da dimagrire una donna come quella. Aveva all’incirca tra i trentacinque e i quarant’anni, ma la camicetta verdognola che le fasciava il corpo non lasciava trasparire nemmeno un filo di grasso.
«Ma se ieri ne hai mangiati almeno dieci!» la sbugiardò Maria Grazia. «Su, non fare la timida davanti a Flavio».
Patrizia arrossì visibilmente e balbettò farfugliando qualcosa di comprensibile solo a sé stessa.
Ma la quiete durò ancora una volta poco.
«Papà! No! Non mi lasciare, papà!» la voce di Riccardo risuonò tonante nella casa.
Balzammo di nuovo in piedi e ci fiondammo ancora una volta nella camera del signor Losti, che era chinato in avanti, in preda a degli spasmi. Si muoveva come se avesse voluto divincolarsi da un male invisibile, con una frenesia stupefacente. Poi cadde all’indietro e sbatté la testa violentemente sul cuscino, provocando anche un forte rumore provocato dalla testata del letto che aveva impattato contro il muro. Teneva le mani strette attorno alla gola, mentre noi avevamo le nostre sul cuore.



Cos'è successo al signor Losti? Ed è davvero una cosa naturale?

Edited by Matteo Del Piero - 6/8/2013, 15:00
 
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