| Ed era l’ombra della luna ad ispirare nuove note, il dolce tocco dei raggi sulla pelle scoperta, la luce che, non nel pieno della sua bellezza, risaltava ai miei occhi. Lei era una creatura mistica, sempre presente in cielo e nella vita di chiunque la desideri. Persino i miei occhi scorgevano la sua infinita bellezza: la stessa che accomuna sotto i suoi raggi gli innamorati, la stessa che affascina per il mistero che emana, la stessa che ha ispirato innumerevoli artisti, solo e grazie all’ausilio della sua semplice essenza. Ed era quel tocco bianco che mi faceva sentire viva, la pelle reagiva istantaneamente, i sensi erano in simbiosi con l’atmosfera creatasi; mi sentivo un tutt’uno con la quiescenza di cui mi stavo drogando e, per una volta, non era il fumo a darmi tali sensazione, per una volta era merito mio e della pace che in cuor mio albergava e nascondeva, bene o male, il caos che in realtà mi aveva segnata.
Lasciai per qualche istante che un solo arto desse vita alla sinfonia, oramai ne ero più o meno capace e questo mi rendeva orgogliosa in un certo senso. Stiracchiai il braccio sulla corteccia ruvida del tronco retrostante alla mia schiena, quasi ad accarezzarne le parti più inospitali al tatto. Infondo mi sentivo proprio così, come una rosa tempestata di spine che tutti attira ma nessuno osa coglierla e ne ha il coraggio, lo fa ferendomi e ferendosi. Era colpa sua, ne ero certa, ma era come se l’insicurezza nella quale mi aveva lasciata crescere avesse contagiato anche chi mi stava accanto e, come una barriera, impedisse loro anche solo di toccarmi. Che senso aveva essere una rosa se nessuno avrebbe mai osato aggiungerti al suo mazzo? Ma fu nell’istante in cui la pace cominciò a vacillare che dei passi dolci si amplificavano al mio udito, probabilmente una ragazza si era avventurata per le foreste che oramai fungevano da culla al mio corpo. Smisi di suonare il mio flauto, non conoscevo le sue intenzioni, ma dai passi dolci e dalla voce delicata che susseguì, potei ben intendere che, forse, anche lei, era alla ricerca di un po’ di quiete.
Mi accingei a seder meglio sul ramo che mi sosteneva, voltandomi verso la fonte ove proveniva la voce che, come melodia, aveva toccato i miei timpani. Provai a sorridere in modo dolce, lasciando che gli occhi rimanessero aperti in una fessura, appena sufficiente per rendere visibile il colore. Poggiai il flauto sulle gambe, le braccia al lato dei miei fianchi, poggiate sul ramo. Lo sguardo rivolto verso i suoi occhi, avevo imparato a puntare il mio sguardo in quello altrui, senza effettivamente vedere.
E perché mai dovrei andarmene…? La luna stasera è per tutti e la presenza altrui è ben accetta.
Ed eccola, la parte contrastante, se non opposta, del carattere che ero solita mostrare. L’amore per l’arte, per la natura e forse anche per la macchina che aveva imparato a viverci: l’uomo. Un essere meccanicamente perfetto, che di difetti non dovrebbe soffrire. E invece bastava conoscere anche un solo individuo per rendersi conto di quanta malvagità e di quanta imperfezione ci avvaliamo. Eppure in quei momenti chiudevo un occhio, forse entrambi; forse anche io riuscivo ad amare. Afferrai Amai e lo rigirai più volte tra le mani, l’avrei accontentata, ma prima volevo soddisfare la mia curiosità.
Dimmi, è stata la musica a guidarti fin qui? Sai, non ti avevo mai sentita...
Edited by ~Sah. - 26/4/2017, 15:38
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