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La terza Espada, Bleach- spoiler!

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KYU
view post Posted on 14/3/2008, 15:37     +1   -1




Questa fan fic è ispirata al manga di Kubo Tite, Bleach.
E' ancora in prosecuzione, e non ho nemmeno idea di dove mi porterà la narrazione. Tuttavia ritenevo doveroso approfondire, secondo il mio stile narrativo, il background di un personaggio spoiler che m'ha affascinato moltissimo: Neliel Tu Oderschwank, o semplicemente Nell. La "terza" Espada del temibile Aizen.
Spero che vi piaccia... Enjoy! ^^
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La Terza Espada
GENESI 01 -" Le origini di un mostro "




Erano da poco sorte le prime luci di un’alba immersa nella bruma.

Roteavano le pale dei mulini; roteavano di un moto ordinato, continuo, incessante, che pareva rendere i secondi, paradossalmente, interminabili. Quelle enormi pale vorticanti scandivano il tempo fermo che lei era costretta a vivere. Dall’imponente finestra del castello immerso nel verde e negli acquitrini, lei poteva scorgere il loro movimento regolare e perpetuo, e sentirlo produrre la nenia solenne che accompagnava la sua esistenza. Molti avrebbero invidiato la sua ricchezza e il suo prestigio, molti l’avrebbero volentieri posseduta. Tuttavia, soltanto quei mostri silenti, immobili seppure dediti ad incessante compito, erano partecipi della sua vera essenza, del suo viso privato della consueta maschera di composta umiltà, di abnegazione.
Ogni giorno si rendeva gentile giovane donna sempre sorridente, sempre pronta ad assumersi ogni responsabilità, sempre pronta a prevenire il più piccolo margine d’errore ed a guidare tutto il commercio di famiglia. D’altronde, questo era ciò che dall’unica erede si esigeva, quasi fosse un naturale fardello nato con lei vent’anni prima. Deludere gli altri, che deplorevole condotta sarebbe stata per lei! Lei che era tutto fuorchè l’imperfezione.
Tuttavia, non si era mai voluta privare del capriccio di poter immaginare, seppur per qualche attimo alle luci dell’alba, una vita diversa. Anche quella mattina sarebbe cominciata nello stesso modo di molte altre, ormai. Mentre i colossi silenziosi la fissavano, abbandonata sul letto a baldacchino la pesante maschera di falsità e freddezza, pensava a una famiglia che non era la sua. Pensava a fratellini e sorelline che si radunavano intorno alla sua lunga gonna, che ridevano spensierati e si facevano i dispetti; pensava ad un padre il cui sguardo sarebbe sempre stato di benevola comprensione, e una madre che la baciava con affetto. Rimuginava su lunghe scampagnate all’aria pura insieme ad un cane scodinzolante, allo stancante lavoro di sorella maggiore di tante piccole pesti, e al soddisfacente ritrovo a tavola, momento in cui si intraprendeva una vera conversazione. Fantasticava su un abbraccio sincero, dato a qualcuno che l’avrebbe protetta e amata davvero.
Tutto questo nella sua realtà mancava, e nemmeno la sua ferrea determinazione avrebbe potuto nascondere a lungo agli altri la sua brama di affetto, la sua brama di libertà ed emozioni. Durante i minuti prima del sorgere del sole, lei poteva sentire che l’assenza di ciò la soffocava. Gli sguardi altrui avrebbero quindi di lì a poco messo a nudo la sua vera natura, da tempo lacerata in due parti distinte nettamente. E non poteva permetterlo nel modo più assoluto. Mai sarebbe dovuto accadere.

Roteavano le pale dei mulini; roteavano di moto continuo e incessante. Dopo essersi abbandonata all’immaginazione e averne goduto appieno, era stata riportata alla grigia realtà dal richiamo della domestica fuori dall’uscio. L’attendevano le sue responsabilità, vestite di grigio perla, adornate d’adamantina durezza.
Tuttavia aprendo gli occhi, avvertiva il desiderio che quel giorno andasse diversamente. Finalmente aveva realizzato che l’aspettativa macerava la sua determinazione, l’assenza di autentico affetto le inaridiva il cuore votato al dovere e all’onore famigliare. Aprendo gli occhi, avvertiva la smania di far assistere agli immobili colossi l’ultimo, o forse il primo, diritto che si concedeva
autonomamente. Aprendo gli occhi, sentiva calde lacrime colare dai profondi e dolcissimi occhi verdi, da tempo resi cupi e mesti, e provava una fitta al cuore. Aprendo gli occhi, sentiva che non avrebbe più voluto richiuderli.
Perciò decise di salire sul cornicione di pietra arenaria della poderosa finestra squadrata, per librare in aria le sue ali e il suo autentico essere. Aveva così abbandonato nella stanza quella maschera ormai inutile, aveva regalato agli amici mulini il suo primo volo. La libertà del vento l’inebriava, anche dopo lo schianto: la libertà era parte di lei.
Un rivolo di sangue scorreva dalla folta chioma color del grano acerbo fino alla rosea bocca semiaperta, finendo a contatto con il terreno gelato. Le sue forme generose giacevano immobili sulla verde erba ricoperta di rugiada, e un sottile strato di nebbiolina cullava il suo corpo esanime. Gli occhi spalancati sembravano ancora in grado di osservare e percepire, poiché in essi era rimasta l’ultima scintilla vitale. Il cuore, tuttavia, aveva smesso di scandire il tempo dell’esistenza.
Un altro tempo sarebbe però sorto per lei da quel momento. Un tempo esageratamente lungo, il tempo infinito dell’attesa, il tempo della morte.

Sembrava quasi che quel giorno non fosse mai sorto, sembrava quasi che tutto fosse stato solo un brutto sogno, sembrava che la sua morte fosse solamente un incubo sepolto nella memoria di un essere mai esistito. Eppure era morta sul serio, era morta davvero e poteva, tuttavia, osservarsi esalare l’ultimo respiro, quasi come se quella bella ragazza accasciata a terra non fosse più lei. Poteva osservarsi gli arti congelati, la bella chioma al vento, le labbra che diventavano cianotiche. Che prodigio era mai quello?
Si accasciò vicino al suo stesso corpo, provò a tastarlo; constatò che non poteva riuscirci, perché tutto il suo essere non aveva consistenza. Le era, si può dire, rimasta quindi solo l’anima: la sola cosa che le era stata tolta durante la vita. Provò un feroce, animalesco istinto di urlare, sia perché tutto ciò che le stava accadendo trascendeva la normalità, sia perché la vista del suo stesso corpo riverso le provocava un atroce fastidio. Dov’era il dio che i suoi genitori avevano sempre pregato? Che fosse l’eterno errare dell’anima la punizione per i suicidi?
Avrebbe vomitato, se soltanto avesse potuto, ma il solo riverbero che avvertiva dentro sè era l’opprimente pulsare di una strana catena, ancorata al petto privo di vita. La fissò per qualche minuto in silenzio, incapace di emettere suono; i suoi occhi spalancati alternavano sguardi perplessi alla catena e al corpo immobile che una volta le era appartenuto. Decise che avrebbe atteso, avrebbe atteso che le cose cambiassero.
I giorni passavano, e l’incubo di quel purgatorio non cessava. La povera anima continuò a vagare nei dintorni del luogo che l’aveva vista morire, gemendo per la fatica che le provocava quella catena straziante, quella catena viva che mangiava un po’ di sé ad ogni passo.
La sua tomba era reale, l’indifferenza dei suoi genitori era reale, il muschio che stava crescendo sulla lapide era reale, ed anche il profondo rimorso che sentiva nascerle in petto era reale. Tuttavia lei non s’arrendeva mai, continuava a rimanere ancorata alla sua vecchia vita, a visitare la sua stessa sepoltura. Le labbra si incresparono in un amaro sorriso mentre contemplava la tomba vuota, e il dolore s’acquì maggiormente. Il vento sibilava tra le fronde verdi, diradando la nebbia.
Roteavano le pale dei mulini....



Quanti giorni erano trascorsi? Non lo ricordava più. Si muoveva lentamente in cerchio, i passi pesanti che strisciavano il terreno accanto al lugubre castello. Un consueto andamento di morte, la fine che ancora non arrivava a donarle riposo eterno, ma al contrario la teneva prigioniera di una routine infinita, dolente. Strumento di continuo dolore era la catena ancorata al suo petto ormai vuoto.
Certe volte provava a tastare il suo corpo cereo, là dove una volta esisteva un cuore pulsante pregno d’energia, e sentiva un irrefrenabile moto di malinconia e rimpianto avvamparle dentro. Osservando durante il suo errare il paesaggio, le sembrava che nulla fosse mutato da quel giorno infausto in cui aveva deciso di togliersi la vita. Il suo corpo era ancora lì, preda del vento, della pioggia e del destino. Un destino che avrebbe portato le sue forme a decomporsi lentamente, proprio come accedava in quel momento alla sua anima.
I passi lenti, mesti, meccanici la portavano lontano ma nel contempo in nessun luogo, perché difatti non v’era posto alcuno in cui potesse recarsi. Lei non capiva, come mai ancora nessuno era giunto a salvarla da quel limbo sospeso a cui era costretta? Perché non le era ancora stato concesso il sonno eterno?
Questi foschi dubbi si alternavano continuamente a un dolore acuto e penetrante, che sembrava avvolgerla in ogni parte del corpo, partendo dal petto. La sensazione era simile a quella percepita da un povero topolino schiacciato dalle spire avvolgenti di una gigantesca serpe. Proprio come al piccolo roditore, a lei non era concessa più alcuna speranza. La sofferenza lancinante che la lambiva l’avrebbe accompagnata ancora per molto tempo, questa era la sensazione che avvertiva durante le infinite passeggiate immerse nella foschia. Quella insolita catena pareva l’unica cosa che avesse ancora vita, poiché al contrario suo si dimenava, si muoveva come se cercasse sollievo nell’autocannibalismo. L’unica conclusione a cui era giunta durante l’eterno vagabondare era che, probabilmente, quello strano fenomeno avrebbe segnato il suo tempo terreno fino al momento della nullificazione totale. Una volta che gli anellini famelici avessero finito di divorarsi vicendevolmente, lei sarebbe scomparsa, e il suo ricordo, così come il suo corpo, si sarebbe disperso nel vento.

Ad un certo punto, però, proprio quando il suo cammino l’aveva riportata nei pressi della propria carcassa, accadde qualcosa di diverso dagli altri giorni. Da lontano, quasi come fosse uno spirito apparso dal nulla, ecco delinearsi una figura di donna. La silouette prendeva forma man mano che la nebbia, che l’avvolgeva come un manto candido, si diradava, consentendole di scorgere un profilo avvicinarsi. Chi era quella bella giovane? Aveva capelli lunghi mossi dalla brezza, color dell’ambra; anche i profondi occhi, dolci ma malinconici, erano dello stesso colore dell’alba. In mano stringeva una cetra dorata, e la sua veste era un’armatura.
Immediatamente pensò che fosse un’allucinazione causata dall’inusuale fame che la attanagliava da qualche tempo, come se potesse ancora servirle qualcosa l’aver appetito; tuttavia dovette ricredersi: quella figura era reale. Stava tastando il suo cadavere accasciato a terra, e il suo sguardo era colmo di amarezza. Pareva una donna segnata parecchio dal mito della morte, un cavaliere teutonico dall’armatura curiosamente rilucente di vita propria, un messo della morte, un angelo dagli occhi di ghiaccio.
Non aveva avuto il coraggio di parlare, lei che era solo puro spirito; forse temeva che l'altra l’avrebbe trafitta con occhiate profonde di sdegno per il crimine commesso. Pensò quasi di fuggire, perché i giorni della solitudine l’avevano resa simile ad un piccolo e indifeso animale selvatico, ma i suoi arti erano come paralizzati da una forza invisibile. Infine, la nuova venuta ruppe il silenzio:


- La tua vita deve essere stata un inferno, ma per gettarla via così... eri veramente indegna di possederla. -

Come aveva immaginato, ecco che il messo della morte (così le piaceva credere) era intervenuto per giudicarla, pugnalandole l’anima debole con parole fredde come l’aria che gli attraversava i bei capelli ramati. Lei era una ricca ereditiera, uno spirito ribelle, una amazzone inarrivabile, e quelle parole, sebbene giuste, non le andarono per nulla a genio. Un moto di stizza e indignazione si impadronì di lei, misto ai ricordi del suo folle volo. Persa nelle torbide pieghe di pensieri di morte, lei non s’accorse che il femminino cavaliere si era seduto accanto al proprio corpo esangue, ed aveva iniziato a suonare una melodia. Le dita affusolate della bella mano scandivano agili le note di quella musica soave che pareva canto di parca. Mentre dalle corde della cetra le note nascevano repetine, ella si presentò, dichiarando di volerla accompagnare nell’abisso dell’aldilà:

- Sono Sylvia, una shinigami mandata dalla Soul Society per purificarti, anima senza futuro. Le mie note sono la mia spada, ascoltale e fatti trasportare. -

Tuttavia lei quasi non udì quelle parole serafiche. Perché la shinigami non l’uccideva immediatamente? Soffriva da troppo tempo, voleva solo che le sue pene potessero essere alleviate. Voleva comprensione, ma anche libertà. E quelle dolci ma letali note la soggiogavano; una nuova prigione.
Era ormai persa nella musica, rapita come foglia autunnale dalle spire di una bufera. Quella melodia era tanto triste quanto seducente, ed era capace di scaldarle lo spirito corroso dal dolore e gli occhi vitrei e spenti. Le suadenti note violentavano le sue orecchie, s’insinuavano quasi nella carne cerulea del suo corpo spirituale, sembravano voler giungere nei più reconditi recessi della sua psiche. Invitati come spettatori di quel malinconico balletto, i ricordi della sua vita passata danzavano veloci nella sua mente, scorrendo come lame insanguinate dentro di lei.
La catena, come destata dal sonno profondo che le aveva regalato un po’ di quiete, improvvisamente si svegliò colpita dalla melodia. L’autocannibalismo si fece più feroce, più frenetico, e il suo corpo venne scosso dai singulti, dalle pulsazioni, dalle vibrazioni di un dolore che pareva ardere come fuoco infernale. Cominciò a sussultare, a boccheggiare nel tentativo di impadronrsi di un sollievo che non sarebbe giunto, di riacquistare il controllo sulla propria psiche, paralizzata dalla musica struggente. Tuttavia ogni tentativo fu vano: la sua anima era scossa dal brivido di quel martirio orribile.
Immagini, immagini della sua famiglia: l’indifferenza, lo sdegno, l’indignazione. Ricordi, ricordi di un affetto mancato che non avrebbe mai più avvertito sulla propria pelle. Pensieri, pensieri amari di vendetta, di desiderio, di bramosia di poter vivere, ancora. Si, lei voleva vivere ancora: durante la sua esistenza le catene della responsabilità l’avevano avviluppata come nastri neri, ma ora avrebbe voluto ricominciare da capo. La musica di morte aveva risvegliato in lei una insolita forza che derivava dall’odio, dal rimorso.
Tra uno spasimo di sofferenza e l’altro, trovò il coraggio di parlare:


- Io voglio vivere ancora... Io sento di dover vivere. -



I'm tired of being what you want me to be...
"Numb"_ Linkin' Park



Aveva riversato l’intero suo spirito in quelle poche, sofferte parole, biascicate tra un gemito e l’altro, e la shinigami non aveva nemmeno prestato ascolto. Le si era rivolta in modo glaciale e sgarbato, come se fosse una implacabile e vendicativa regina che guarda schifata un umile suddito, o un sudicio criminale. D’un tratto lei smise di rimuginare sul proprio peccato, e roventi pensieri guizzarono come scintille vitali da ogni poro del suo martoriato corpo. Serrò i pugni, per quanto le fosse consentito dalla musica imprigionante, e capì che se fosse stata viva le unghie avrebbero attraversato la pelle morbida, tingendosi di cremisi. Nonostante le pulsazioni del suo petto dilaniato si facessero più intense e martellanti man mano che la cantilena mortale si disperdeva nell’aria greve, lei non aveva alcuna intenzione di piegarsi al volere della donna. Non aveva intenzione di morire così, travolta da una scarica di note e parole di marmo. Sapeva, tuttavia, che la sua rabbia per quel deliberato disdegno sarebbe morta con lei, dissolta con lei come cenere di pira lasciata in disuso.
Chiuse gli occhi verdi al mondo circostante, poiché non aveva intenzione di assistere un minuto di più a quell’orribile spettacolo di cui era sfortunata protagonista; li serrò con forza, spinta dall’ira che lo sguardo angelico del cavaliere le provocava in petto.
Pensò che sarebbe sparita così, nel mezzo di quella danza macabra: i capelli scompigliati, le labbra piegate in una smorfia di dolore, e le belle forme aggraziate distorte da una pena crudele.

Guardò nuovamente la sua carnefice.
I lunghissimi capelli dorati vibravano di lucentezza, la pelle ambrata ricopriva come un armonioso sudario quel corpo sodo e scolpito, avvolto in una strana veste nera. Tutto in lei pareva troppo perfetto per essere umano, tutto tranne i due grandi iridi dorate. Sebbene sulle labbra carnose dipinte di rosso vivo si stava delineando un lieve sorriso, quei due bulbi lucenti celavano all’interno una tristezza immane, che nessuno avrebbe mai potuto comprendere. Tutto ciò la colpì profondamente, poiché le ricordarono la vecchia se stessa, la ragazza costretta ad elargire felicità e consensi per poi piangere in solitudine, nel buio di una stanza, la propria miseria. Quella donna le assomigliava, anche se non completamente. Era certa che avrebbe sempre saputo dominare le emozioni, al contrario suo.
La catena arrestò per poco il proprio divorarsi, ma subito riprese il folle pasto; uno strillo acuto di dolore perforò il cielo azzurro dell’Olanda. Non se n’era avveduta fino a quel momento, ma gli anelli stavano pericolosamente raggiungendo il suo triste cuore vuoto; non mancava molto: la nera oscurità della sua vecchia vita avrebbe albergato per sempre in lei come piaga invisibile.
Si accasciò a terra, ansante, le mani premute contro il petto. Lo sguardo attonito era ancorato al terreno, mentre le tempie, avvampando, aumentarono lo strazio della sua agonia. Nella sua mente cominciarono a roteare nuovi ricordi, quelli che per anni aveva tentato di rinchiudere nei reconditi angoli della sua abnegazione. Ora, però, le vorticavano in testa e si espandevano malignamente come virus.


- Io ti darò eterna quiete, accettala e non farmi perdere tempo... -

Quella voce fredda e controllata le giunse come eco lontano, come ombra di sogno. Anche se ciò che udì non si impresse nitido nella mente confusa, lei capì che il bellissimo angelo dalla veste scura aveva parlato con voce atona, meccanica, priva di qualsiasi sentimento. Nessuna compassione per una povera anima dolente, soltanto l’inesorabile obbedienza alla giustizia e al dovere. Non c’era traccia di preoccupazione accorata nei gesti di quella insolita presenza venuta a farle visita, non v’era interesse alcuno per il suo tormento, non una parola di conforto o cenno di benevolenza. Proprio come nella sua vita passata. Lei, tuttavia, resiteva al requiem mortale.
La sensazione di esclusione, di impotenza provata in vita si impadronì nuovamente di lei, lei che la conosceva così bene: perciò la rabbia crebbe, divampò a dismisura. L’opressione al petto si fece totalmente insopportabile. Dal centro del suo corpo cominciò a propagarsi una sensazione di mortal risucchio, come se tutta la sua anima stesse per implodere su se stessa, schiacciata da un fardello troppo pesante. Sentì il respiro mancare, le forze venir meno troppo velocemente per permetterle contegno: urlò con tutta la forza che le era rimasta.

Anche se la bionda messaggera di morte avrebbe voluto fare qualcosa per fermare tutto ciò, ormai era troppo tardi.
La bella ereditiera incatenata da aspettative enormi e sbavanti come lupi famelici era morta per la seconda volta; una nuova identità stava nascendo su quel viso giovane e fiorente. Non più una maschera di calma compostezza e quieto assenteismo, ma un orrendo stendardo che puzzava di morte e di odio. Il corpo aggraziato perse l’armonia che l’aveva sempre contraddistinto, e prese a crescere inesorabilmente. Le mani candide dalle dita esili si trasformarono in due enormi strumenti di distruzione e caos: due braccia spropositate dotate di artigli affilati, frementi di violenza.
Le gambe sinuose non avrebbero più mosso passi colmi d’eleganza, ma piuttosto poderose falcate scalpitanti: non era più movimento d’uomo, ma di bestia dotata di zoccoli. Ai lati della testa due corna rubarono il posto alla folta chioma, che si ritrasse.
Il viso che, durante la propria vita, aveva sempre elargito amabili parole venne infine ricoperto da un gigantesco teschio ovino, da una bocca famelica dotata di fauci aguzze e da due cavi orbi neri. Il petto rimase vuoto; ormai nemmeno il debole cuore d’anima era sopravvissuto, vi era solo un buco desolante. La sua forma di centauro prese vita, stagliandosi contro le nubi sporadiche del cielo.

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Pianse un’ultima, solitaria, lacrima di rancore prima di perdere il senno e divenire mostro privo di raziocinio e clemenza. Tuttavia, nessuno notò mai quel piccolo gesto di commiato.




Vedremo come proseguirò la storia... naturalmente ci metterò anche un pairing con Noitora :sisi: è tutto scritto nella mia testolina bacata! :P

Edited by KYU - 16/3/2008, 22:27
 
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KYU
view post Posted on 23/3/2008, 12:02     +1   -1




Ecco qua il secondo capitolo... scritto in un momento di laringite acuta, per cui potrei aver fatto degli errori osceni. Per ora sembra che a nessuno interessi questa contorta storia, ma io continuo a postare i capitoli :)

La Terza Espada
GENESI 02 -" Il sapore della morte"



Un sordo boato spazzò l’erba circostante, percorsa come avesse vita propria da una folata fulminea, carica di vibrazioni. Lei era rinata, infatti, sotto nuova forma, sotto altro aspetto. Il mostro dell’aspettativa aveva fatto di lei stessa una bestia orripilante, inquietante e vorace. Aveva perso la sua longilinea e venerea forma di ragazza; il suo corpo era quello di un animale, le sue gambe non erano più gambe umane, ma forti zampe corazzate terminanti in sorprendenti zoccoli equini. Persino una coda, saettante e scheletrica, era spuntata dal retro della sua enorme stazza da centauro.
Aprì gli occhi, dopo la trasformazione.
Le pareva che il paesaggio intorno a lei fosse mutato; poteva vederlo, infatti, da un’altra prospettiva. Poteva osservare il tutto dall’alto e, se avesse allungato le braccia artigliate, avrebbe quasi potuto toccare il balcone d’arenaria, trampolino per il suo volo mortale. Tuttavia, non era questa la sostanziale differenza: ora era lei ad essere diversa, non il luogo che l’aveva vista morire.
Ora era libera, libera di compiere qualsiasi azione volesse, senza sottostare a regole alcune, senza dover mai chinare la testa. E, cosa più importante, tutto il suo nuovo corpo fremeva d’entusiasmo, era cosparso da pulsazioni di piacere, che le provocavano quasi un imbarazzante senso d’eccitazione, quasi un orgasmo. Non si era mai sentita così viva in tutta la sua esistenza, ed era così strano da affermare, dato che era stata la morte a donarle queste sensazioni. Emozioni, pari ad ali per volare. O, se si vuole essere corretti, a donarle zoccoli con i quali correre libera nelle praterie olandesi, e artigli con i quali difendersi da tutto ciò che le voleva del male.

Come stava accadendo, appunto, in quell’istante.
I suoi neonati pensieri da neonata creatura vennerro interrotti da una sensazione di timore, balenante come lampo in una tempesta all’interno del suo cranio cornuto. Simile ad istinto era tutto questo, un istinto primordiale che le stava dicendo di difendersi, di prepararsi poiché là, dove giaceva il suo vecchio corpo, v’era un nemico.
Non sapeva bene il motivo, ma l’osservare la nera divisa della donna le corrose pian piano la razionalità che, in minima parte, ancora dimorava in lei. Tutto il suo corpo prese ad avvampare di un’emozione mai provata prima: la rabbia. La rabbia che rende incontrollabili.
Partendo dalla punta delle dita acuminate delle braccia, fino ad arrivare agli zoccoli scalpitanti, l’ira cieca percorreva, ballerina portatrice di caos, la sua sconosciuta nuova forma. Danzando e a tratti fermandosi, fece crescere in lei il desiderio di cibo; non era percezione umana, era qualcosa che trascendeva la morte stessa. Voleva poter mangiare, gustare con accurata lentezza la shinigami che le stava davanti. Quella sconsiderata paladina della giustizia, che aveva scritto da sè, incoscientemente, la canzone per la propria fine.
Le orbite cave dei suoi occhi prosciugati bruciavano. Non tolleravano la vista di quella veste scura, quasi fosse il simbolo di una antica faida di cui lei era parte lesa a prescindere. Voleva assaggiare quel corpo armonioso. Passare la lingua umidiccia sul seno florido, sulla schiena inarcata, sulle gambe perfette che anche lei aveva avuto.

Pregustando un lauto pasto, la bava colò in modo spropositato dalla bocca spalancata, contorta in una smorfia di puro piacere. Ormai della vecchia ereditiera olandese, pacata e serena, non erano rimaste che le più condannabili voglie e brame. Assatanata di violenza come un assassino, il suo corpo equino iniziò a sussultare, i suoi zoccoli raspavano il terreno con veemenza. Un verso bestiale, profondo, parve perforare il cielo.
La messaggera di morte le andò incontro, senza preoccuparsi di nulla, spavalda, fiera, temeraria; le labbra carnose erano incurvate in un ghigno di soddisfazione. I passi, man mano che s’avvicinava, si facevano sempre più rapidi e sicuri, mentre lo sguardo restava fisso e vibrante d’entusiasmo. Tuttavia, un’eccessiva fiducia in sé stessa albergava in quegli occhi azzurri.

«Per te non vale la pena utilizzare lo shikai» sbottò, perentoria, restituendo alla cetra la consueta forma di katana.

Sylvia, però, non sapeva che quello sarebbe stato il secondo, e letale, errore commesso quel giorno. Balzando in aria, brandendo la spada con ambo le braccia, lanciò un tondo diretto al torace, decisa a tagliare quel corpo mostruoso in due. Nella foga della lotta, nella fretta di concludere, nell’eccitazione dell’uccidere, la povera shinigami si dimenticò della particolarità della creatura neonata.

La cavalla mostruosa infatti scartò di lato, improvvisamente, verso sinistra, cercando quasi di andare incontro al fendente della donna. Con un ruggito imponente si alzò su due zampe, scalpitando con quelle anteriori, che si trovavano ora sulla stessa direttiva della lama vibrante. Successivamente, approfittando della costernazione del nemico, ancora intento a sferrare il tondo sulla sua carne indurita dalla trasformazione, intrecciò le dita bestiali delle braccia rimaste libere, come in posizione di preghiera. Tuttavia, non era di certo una silenziosa e devota cantilena lo scopo per cui tutto ciò sarebbe avvenuto: facendo precipitare le braccia con furia verso l’avversaria, era intenzionata a schiacchiare colei che la voleva morta. Avrebbe di nuovo utilizzato l’energia sferzante che le nasceva in seno nell’infliggere quel colpo, tirandolo quasi come fosse punizione divina.

Non quattro arti, ma sei. Ecco che cosa Sylvia aveva sottovalutato. Anche un principiante l’avrebbe derisa, in quel momento.
Non natura umana, ma malefica. Ecco che cosa l’aveva uccisa.
Il corpo della shinigami venne sbattuto con inaudita violenza contro il terreno; a nulla valsero gli sforzi per attutire l’impatto. Lo scheletro si ruppe, facendo assumere alla donna una posizione grottesca e innaturale. Gli occhi vitrei, vuoti, fissavano un punto imprecisato del cielo, fattosi nuvoloso. La pioggia iniziò a cadere su quelle morbide forme. Nella mano era ancora stretta la katana, come se cercasse ancora una difesa, una protezione contro la morte.
Il grosso centauro osservò, maschera senza espressione, l’assassinio appena avvenuto. Le sue narici scheletriche odoravano un profumo diverso dal solito; un allettante sapore di sangue. Spalancata la bocca sbavante, i denti acuminati riflessi nelle pupille dilatate della morta. Affondare le fauci nella carne, e succhiarne lo spirito. Assaporare la morte, per ritrovare la vita. Ogni singola fibra del corpo, ogni singola cellula, ogni goccia di sangue era come divina ambrosia. Succhiare l’essenza da un’anima per arricchire la propria, completarsi con essa; leccarsi le labbra gustando il Piacere. Fremere di passione e di appagamento ad ogni morso.
Un banchetto che assomigliava all’atto sessuale.




La pioggia cadeva, incessante. Le nuvole grigie s’addossavano l’una all’altra, regalando lampi e tuoni agli spettatori terrestri.
Dentro le mura del castello il tempo scorreva normalmente; un caldo fuoco scoppiettava all’interno dell’enorme camino di pietra. Le fiammelle guizzanti erano l’unico lume dell’ampio androne, ma poteva comunque rischiarare ogni angolo della stanza. La luce ballerina danzava sul tavolo rettangolare, imbandito per la cena, creando giochi d’ombre. Dalle posate d’argento, dagli alti calici e dai piatti sporchi di cibo il dorato bagliore si rifletteva sul volto cereo dei due commensali, immobili sulle sedie imbottite di porpora. I lineamenti di quei pallidi visi si stagliavano, funerei, nella penombra della stanza. Dalle labbra socchiuse una scia color cremisi andò a sporcare la tovaglia pregiata. Ancora una volta, il sapore del sangue aveva condito le pietanze della famiglia Oderschwank. Le due figure impassibili, un uomo e una donna, ormai non appartenevano più a quel castello, a quella realtà fatta solo d’ipocrisia e avidità.

In quegli occhi spalancati era ancora possibile leggere il terrore e lo sgomento. Attraverso quegli arti rigidi si poteva scorgere l’ineluttabilità del destino, l’impotenza della natura umana. La bocca dell’uomo, il cui capo era stato innaturalmente piegato, stringeva ancora a sé la scia di parole d’addio:


«Cosa sei tu, mostro?!»

«Sono Neliel, padre mio...»

 
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